A fondamento della genesi dello Stato vi sono, oltre alla teoria marxista, due
teorie fondamentali: la teoria del conflitto e la teoria del contratto.
In base alla prima
teoria, gli Stati sorgono come conseguenza di scontri tra individui e gruppi
di individui o tra società. In quest’ottica, un gruppo di
individui sarebbe riuscito ad imporsi su degli altri, subordinandoli a sé ed
imponendo su di essi il proprio potere e la propria volontà, che sono andati
poi consolidandosi con la creazione di istituzioni politico-amministrative
stabili.
Per la seconda teoria, invece, lo Stato è il prodotto del bisogno individuale di protezione dagli inevitabili
conflitti che si verificano nella società. Qui gli individui
avrebbero deciso attraverso il loro consenso di sottostare a determinate regole
contenute nel patto istitutivo dello Stato al fine di porre fine alle continue
lotte che si verificano sia all'esterno che all'interno della società civile
stessa.
La differenza tra le due
visioni, come si può notare, è che nella prima la genesi statuale dipende da
cause di forza maggiore esterne, mentre nella seconda da un consenso interno:
la prima teoria è esogena ed oggettiva, perché frutto di un’imposizione; la
seconda è endogena e soggettiva perché conseguente a una scelta.
Comunque la si voglia
considerare, il verificare se storicamente gli Stati si siano formati
attraverso il conflitto o il contratto trascende dagli obiettivi proposti in
questa sede: ciò che qui preme sottolineare, invece, è che nella storia delle dottrine
politiche numerosi filosofi hanno accolto idee simili, dell’una e dell’altra
teoria, circa l’origine dello Stato.
Platone ha un’idea molto
pragmatica ed utilitaristica intorno alla nascita dello Stato:
Platone |
La nascita dello Stato dipende dal fatto che ciascuno
di noi non basta a se stesso, poiché ha una molteplicità di bisogni. […] La
gran quantità di questi bisogni fa riunire in unico luogo molte persone che si
associano per darsi aiuto, e a questa associazione abbiamo dato il nome di
Stato.
Per il filosofo ateniese,
pertanto, la ragione principale per cui gli individui decidono di unirsi in
società è l’utilità che proviene dall'aiuto reciproco.
Aristotele, invece, parte
dal noto presupposto che l’uomo, essendo un animale socievole, tende per natura
a riunirsi in società e collaborare in vista del bene comune:
Da ciò dunque è chiaro […] che l’uomo è un animale che
per natura deve vivere in una città [πολιτικὸν
ζῷον, ossia un animale civico] e chi non vive in una città, per la sua
natura e non per caso, o è un essere inferiore o è più che
un uomo.
Per il grande filosofo di
Stagira lo Stato è un prodotto naturale anteriore all'uomo stesso. Come infatti
il tutto precede necessariamente le parti, così lo Stato precede ogni altra
forma di comunità politica:
E’ dunque chiaro che la città [lo Stato] è per natura
e che è anteriore all’individuo perché, se l’individuo, preso da sé, non è
autosufficiente, sarà rispetto al tutto nella stessa relazione in cui lo sono
le altre parti. Perciò chi non può entrare a far parte di una comunità o chi
non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città, ma è o
una belva o un dio.
Aristotele,
infatti, sostiene che all'interno dello Stato ci siano più comunità inferiori,
che appunto lo compongono come parte del tutto:
La comunità che si costituisce per la vita di tutti i
giorni è per natura la famiglia […]. La prima comunità che deriva dall'unione di più famiglie volte a soddisfare un bisogno non strettamente giornaliero, è
il villaggio […]. La comunità perfetta di più villaggi costituisce la città [lo
Stato], che ha raggiunto quello che si chiama il livello dell’autosufficienza:
sorge per rendere possibile la vita e sussiste per produrre le condizioni di
una buona esistenza.
Il pensiero cristiano
sostituirà l’amore civico, tipico della tradizione greco-romana, con l’amore
filantropico. Per S. Agostino sarebbe proprio l’amore a spingere gli individui
a riunirsi in uno Stato.
Afferma infatti il d’Addio:
Per S. Agostino lo Stato deve essere definito come la
cosa del popolo, ma il popolo deve
invece essere concepito come l’unione degli individui fondata sulla concorde
comunione delle cose che amano. Lo Stato, il suo ordinamento politico, la forza
che riesce ad esprimere, non sono altro che l’espressione dell’amore di tutti i
consociati per determinate cose. Il processo di unificazione dei desideri,
della volontà, dei comportamenti degli individui di tutte le categorie ed
ordini sociali, il consenso della collettività, scaturisce dall’ordo amoris, così come si manifesta
nella comunità: solo l’amore è in grado di stabilire un reale rapporto di
unione, di comunione dei sentimenti e pertanto di fare di una moltitudine una
unità, che costituisca il fondamento dello Stato.
Bodin, che come
Aristotele accetta l’idea che lo Stato sia costituito effettivamente da un
insieme di famiglie, ci offre uno degli esempi più tipici della visione teorica
conflittuale. Per il filosofo francese lo Stato nascerebbe allorché il
capofamiglia, uscendo dalla sua casa ove è padrone assoluto, dotato di piena
potestà sui figli e soggetto solo a Dio, si unisce ad altri suoi pari (ossia ad
altri capifamiglia) dotati di eguali prerogative, trasformandosi da padrone in
cittadino, cioè in libero suddito dipendente dall’altrui sovranità. Ora, ciò fu
possibile nel momento in cui i capifamiglia si allearono tra loro, scegliendosi
un comandante, e sconfiggendo in guerra degli altri capifamiglia nemici: nacque
allora lo Stato, con le tre figure del signore/monarca (il comandante
vittorioso), i liberi sudditi (i capifamiglia vincitori), gli schiavi (i
capifamiglia sconfitti).
Tutto ciò è sviluppato
nei Six livres de la Republique in questi termini, e val la
pena di riportare interamente il brano, data la sua importanza:
Jean Bodin |
Infatti, prima che tra gli uomini fossero esistiti
città, cittadini e una qualche forma di Stato, ciascun capofamiglia era sovrano
nella sua casa e aveva potere di vita e di morte sulla moglie e sui figli; ma,
dopo che la forza, la violenza,
l’ambizione, l’avidità, la vendetta ebbero armato gli uni contro gli altri
[capifamiglia] l’esito delle guerre e dei conflitti, dando la vittoria agli
uni, rese schiavi gli altri; e tra i vincitori, quello che era stato eletto
capo e capitano, sotto la guida del quale avevano riportato la vittoria,
continuò ad esercitare il potere sugli uni come sudditi fedeli e leali, sugli
altri come schiavi. Allora la libertà piena e intera che ciascuno aveva avuto
di vivere a proprio piacimento senza essere comandato da alcuno, si trasformò
in servitù e fu completamente tolta ai vinti e fu diminuita ai vincitori in
quanto prestavano obbedienza al loro capo sovrano; e chi non voleva cedere
qualche cosa della sua libertà per vivere sottoposto alle leggi e al comando
altrui, la perdeva del tutto. Così entrarono in uso le parole, prima
sconosciute, di signore, servo del principe, suddito.
E’ancora Bodin che,
proseguendo, conferma la sua adesione alla visione conflittualistica sulla
nascita dello Stato:
La ragione e il lume
naturale ci portano a credere che la forza e la violenza
hanno dato origine allo
Stato.
L’idea che a generare lo
Stato sia il conflitto tra più gruppi e che il gruppo più capace o forte
ottenga di sottomettere e di governare quello più debole verrà ripresa ed
apprezzata dai teorici del darwinismo sociale. Per essi, gli individui o i
gruppi di individui che costituiscono le classi politiche e sociali dirigenti
sono quei contendenti che attraverso la loro superiore abilità, adattabilità e
capacità organizzativa hanno ottenuto la vittoria nel conflitto e assunto la leadership.
Anche la dottrina
politica elitista - e primo fra tutti Mosca - accoglierà l’idea che a governare
e ricoprire i posti di potere e di prestigio sia sempre una selezionata classe
politica organizzata e colta, che governerebbe su una massa disorganizzata ed
ignorante; e ciò avverrebbe anche nei presunti sistemi politici democratici
(come dimostrerebbero la rappresentanza parlamentare e lo scarso ricorso a
strumenti di democrazia diretta).
Così, pure il pensiero
politico nazionalsocialista farà propria la teoria del conflitto, colorandola
con tratti marcatamente razzisti. La propaganda del regime fondato da Hitler
adatterà infatti questa teoria all'idea dell’Herrenvolk, ossia del popolo dominatore che, grazie alla propria
superiorità biologica e culturale, ottiene di sottomettere e dominare il popolo
inferiore. Molti casi storici sono stati
additati come esempio di supremazia dell’Herrenvolk
sul popolo conquistato. Un esempio classico è quello di Sparta, ossia del
popolo dei Dori invasori che sottomette la popolazione lacone preesistente,
dando origine alla classe dominante degli spartiati e alla classe servile degli
iloti. Oppure l’esempio degli Arii invasori dell’India che costituirono una
società rigidamente gerarchica fondata sul sistema castale. Altro esempio ce lo
offre la storia di Roma, con la contrapposizione tra patrizi, che sarebbero i
discendenti dei Latini invasori, e dei plebei, che sarebbero invece discendenti
della popolazione pre-indoeuropea. Altro esempio classico, riportato anche
nell’Ivanhoe di Sir Walter Scott, è
l’egemonia politico-culturale che i Normanni invasori dell’Inghilterra imposero
alle popolazioni anglo-sassoni e celtiche dell’isola. Infine, il più celebre
esempio è forse costituito dalle dominazioni coloniali europee; con esse,
secondo la retorica nazionalsocialista, la razza ariana (bianca) si sarebbe
fatta carico, per usare un’espressione di Rudyard Kipling, di quel “fardello”
civilizzatore nei confronti delle popolazioni colonizzate, riscattandole dalla
barbarie, dalla miseria e dalle superstizioni.
Infine, anche il pensiero
politico marxiano aderisce alla visione conflittuale, vedendo nello Stato, come
visto in precedenza, il luogo politico che legittima lo sfruttamento delle
classi più deboli a beneficio dei profitti economici di quelle più potenti.
Accanto alla visione
conflittuale abbiamo poi tutta una serie di filosofi che aderiscono alla visione
consensuale, e che considerano l’ elemento determinante per la costituzione
dello Stato il patto sociale.
Uno di questi,
naturalmente, è Hobbes. Egli sostiene, come già in parte visto, che la
costituzione dello Stato sia l’unico modo possibile per far cessare lo stato di
guerra naturale. Detta costituzione non può avvenire attraverso un atto
violento o un’imposizione; al contrario, il suo scopo è proprio quello di far
cessare qualunque situazione di violenza tra individui. E’ dunque il consenso a
fondare lo Stato. Ogni consociato lo esprime implicitamente nel momento stesso
in cui accetta di vincolarsi alle clausole del patto sociale. Proprio come
qualunque atto giuridico, il pactum societatis hobbesiano obbliga le parti
firmatarie ad attenersi in buona fede alle sue disposizioni nel rispetto del
brocardo pacta servanda sunt, ossia
del mantenimento della parola data. Qui, poi, al contrario di quanto avviene in
natura con le legge naturali, se le clausole del patto venissero travalicate
interverrebbe un potere coercitivo superiore, che il patto stesso ha fatto
nascere, che sanzionerebbe la trasgressione. Di questo potere è titolare chi
detiene la sovranità, sia esso un unico uomo, come nella forma di governo
monarchica, o un’assemblea, come in quella democratica.
Ma per comprendere meglio
tutto ciò vale la pena di riportare un fondamentale passo del Leviatano:
L’unico modo di erigere un potere comune che possa
essere in grado di difenderli dall'aggressione di stranieri e dai torti reciproci – perciò procurando loro sicurezza in guisa che grazie alla propria
operosità e ai frutti della terra possano nutrirsi e vivere soddisfacentemente
-, è quello di trasferire tutto il loro potere e tutta la loro forza a un solo
uomo o a una sola assemblea di uomini (che, in base alla maggioranza delle
voci, possa ridurre tutte le loro volontà a un’ unica volontà). Il che è quanto
dire che si incarica un solo uomo o una sola assemblea di uomini di dar corpo
alla loro persona; che ciascuno riconosce e ammette di essere l’autore di ogni
azione compiuta, o fatta compiere, relativamente alle cose che concernono la
pace e la sicurezza comune, da colui che dà corpo alla loro persona; e che con
ciò sottomettono, ognuno di essi, le proprie volontà e i propri giudizi alla
volontà e al giudizio di quest’ ultimo. Questo è più che consenso o concordia,
è una reale unità di tutti loro in una sola e stessa persona, realizzata
mediante il patto di ciascuno con tutti gli altri, in maniera tale che è come
se ciascuno dicesse a ciascun altro: Do autorizzazione e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo, o a
quest’assemblea di uomini, a questa condizione, che tu, nella stessa maniera,
gli ceda il tuo diritto e ne autorizzi tutte le azioni. Fatto ciò, la
moltitudine così unita in una sola persona si chiama STATO, in latino CIVITAS.
E’ questa la generazione di quel grande LEVIATANO, o piuttosto (per parlare con
maggior rispetto) di quel dio mortale,
al quale dobbiamo, sotto il Dio Immortale,
la nostra pace e la nostra difesa. Infatti, grazie a questa autorità
datagli da ogni singolo uomo dello Stato, egli dispone
di tanta potenza e di tanta forza a lui conferite, che col terrore da esse
suscitato è in grado di modellare le volontà di tutti i singoli in funzione
della pace, in patria, e dell’aiuto reciproco contro i nemici di fuori.
Baruch Spinoza |
Per Spinoza, autore di
chiare tendenze democratico-liberali, il patto istitutivo dello Stato avrebbe
come unico scopo quello di trasferire i propri diritti naturali alla parte
maggiore della società intera, della quale ora si diventerebbe componenti; ciò
farebbe sì che gli individui restino uguali, come già avveniva allo stato di
natura. In altri termini, perciò, il patto avrebbe il fine di ricreare uno
stato naturale egualitario senza rischi di sopraffazioni, e dunque può solo
istituire, nell'ottica spinoziana, una società sorretta dalla forma di governo
democratica.
Anche Locke sostiene che
lo Stato nasca per evitare la potenziale condizione di guerra naturale e che
nasca, anche qui, per patto. Afferma infatti, il filosofo inglese:
Essendo gli uomini, come si è detto, tutti per natura
liberi, eguali ed indipendenti, nessuno può essere tolto da questa condizione e
assoggettato al potere politico di un altro senza il suo consenso. Il solo modo
in cui un uomo si spoglia della sua libertà naturale e assume su di sé i
vincoli della società civile, consiste nell'accordarsi con altri uomini per
associarsi e unirsi in una comunità al fine di vivere gli uni con gli altri in comodità, sicurezza e pace, nel sicuro godimento della sua proprietà e con una maggiore
protezione contro coloro che non vi appartengono. Questo può essere fatto da un
gruppo di uomini poiché non viola la libertà di tutti gli altri, i quali sono
lasciati tali e quali nella libertà dello stato di natura. Quando un gruppo di
uomini ha così consentito a costituire una comunità o governo, essi sono con ciò
immediatamente associati e costituiscono un solo corpo politico in cui la
maggioranza ha il diritto di deliberare e decidere per il resto.
E sottolinea poco dopo
l’idea che i firmatari del patto siano tenuti a rispettare la volontà della
maggioranza dei consociati.
Infine Rousseau, l’autore
del celebratissimo Contratto Sociale,
considera la nascita dello Stato democratico come una conseguenza della
stipulazione di un patto. Per il ginevrino il patto sociale dà soluzione al
problema di trovare una forma di associazione che protegga e difenda con tutta
la forza comune la persona e i beni di ciascun associato mediante la quale
ognuno unendosi a tutti non obbedisca tuttavia che a se stesso o resti libero
come prima. Il contenuto del patto sociale rousseauiano è
descritto come segue:
Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto
il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi, come
corpo, riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto.
Subito dopo Rousseau
descrive gli effetti che da tale patto derivano:
Istantaneamente, quest’atto di associazione produce,
al posto delle persone private dei singoli contraenti, un corpo morale e
collettivo, composto di tanti membri quanti sono i voti dell’assemblea, che
trae dal medesimo atto la sua unità, il suo io
comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica, così formata dall'unione di tutte le altre, prendeva un tempo il nome di città, e prende oggi quello di repubblica o corpo politico, detto dai suoi membri Stato, quand'è passivo, Sovrano, quand'è attivo, Potenza, quando lo si
considera in rapporto con altre simili unità politiche. Quanto agli associati,
prendono collettivamente il nome di popolo,
mentre, in particolare, si chiamano cittadini,
in quanto partecipano dell’autorità sovrana, e sudditi, in quanto soggetti alle leggi dello Stato.
Un’ultima osservazione
può essere fatta circa la fondamentale differenza tra il patto sociale
hobbesiano e quello di Rousseau. Per Hobbes i consociati devono cedere il
diritto di autogovernarsi al detentore del potere sovrano, sia esso un unico
uomo o un’assemblea di persone, prestando ad esso completa obbedienza; per
Rousseau, invece, “queste clausole [del patto] si riducono tutte ad una sola,
cioè all'alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a
tutta la comunità”, ossia alla volontà generale della nazione. In
un certo senso si può concludere il discorso affermando che Hobbes teorizzò il
“Leviatano dei sudditi”, in cui ognuno è sottoposto ad un potere statuale
assolutistico irresistibile, mentre Rousseau il “Leviatano dei cittadini”,
ossia un tipo di Stato che Tocqueville considererebbe espressione di una
“tirannide della maggioranza”.
Riferimenti bibliografici:
M. Rush, Politica e società,
Bologna, Il Mulino, 2007.
Platone, Repubblica, Firenze,
Vallecchi Editore, 1925.
Aristotele, Politica e
Costituzione di Atene, Torino, UTET, 2006.
M. d’Addio, Storia delle Dottrine
Politiche, Genova, ECIG, 2002.
L. Gambino, Brani di Classici del
Pensiero Politico, Torino, Giappichelli, 2002.
T. Hobbes, Leviatano, Bari,
Laterza, 2010.
J. Locke, Il Secondo Trattato sul
Governo, Milano, BUR, 2007.
J. J. Rousseau, Il Contratto
Sociale, Bari, Laterza, 2006.
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