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venerdì 6 marzo 2015

Al di là del luogo comune: analogie e parallelismi nel pensiero politico rousseauiano ed hobbesiano



Con la presente pubblicazione intendiamo trattare un argomento probabilmente meno affrontato rispetto a molti che abbiamo considerato in precedenza. Ci soffermeremo ancora infatti sul pensiero politico di Hobbes e di Rousseau, ma questa volta non per rilevare le differenze, bensì per ricercarne le similitudini.  
Dalle pagine delle principali opere dei due filosofi appaiono con chiarezza almeno cinque analogie:

Frontespizio della prima edizione
del Contratto sociale (1762)
1)La prima analogia è la comune visione contrattualistica che i due filosofi hanno intorno alla nascita dello Stato. Entrambi contemplano la nascita di una società civile che sia la conseguenza della volontà costituente dei futuri consociati. Non viene ritenuto possibile costituire una società politica svincolata dal consenso di coloro che la pongono in essere, poiché, come sostenuto da Rousseau nell’ Origine della Disuguaglianza, non si può costituire uno Stato attraverso l’uso della forza, dal momento che la forza non può creare diritto, e il diritto non può che fondarsi sulla decisione di una volontà libera. Anche Hobbes accetta questo principio, in quanto la stipulazione del patto sociale istitutivo dello Stato-Leviatano include la volontà del costituente medesimo di autorizzare e cedere il diritto di essere governato da un uomo o un’assemblea. La differenza che intercorre tra il patto sociale di Hobbes e quello di Rousseau, però, consiste nel fatto che nel primo caso i diritti vengono alienati a vantaggio dello Stato, mentre nel secondo a vantaggio di tutti i consociati,  ma di ciò si è già parlato prima.      

2)Altra analogia rilevabile è che per ambedue i filosofi non è impossibile vivere allo stato di natura. Mentre, infatti, per Rousseau è perfino desiderabile, lo stesso Hobbes attraverso l’elencazione delle sue celebri leggi naturali (di cui si è già parlato) non fa altro che ammettere implicitamente l’idea che possa cessare lo stato di guerra sin già in natura. Come da lui ribadito, e’ sufficiente a tal scopo che l’uomo naturale conservi nella sua mente la semplice idea di non fare agli altri ciò che non vorrebbe venga fatto a se stesso. Al contempo, entrambi i filosofi accettano anche l’idea che si possa vivere all'interno dello Stato. Questa volta è per Hobbes che ciò appare desiderabile; e tuttavia anche Rousseau auspica la nascita dello Stato, sempre però che esso si sorregga su principi democratici e che, soprattutto, dilegui la disuguaglianza politica, sociale ed economica dei cittadini.

3)Ancora, sia Hobbes che Rousseau ammettono che per natura gli uomini, eccezion fatta per le caratteristiche fisiche, sono tutti uguali. La disuguaglianza dipende dalle leggi civili, dunque è un parto della società politica. Dice infatti Hobbes:

Dunque tutti gli uomini sono per natura uguali fra loro. La disuguaglianza ora presente è stata introdotta dalla legge civile.

            E aggiunge:

La questione di quale di due uomini sia superiore non riguardo lo stato di natura, ma lo stato civile.

Poi continua poco dopo dicendo che, se si vuole evitare lo stato di guerra naturale, una delle leggi naturali - l’ottava nel suo elenco - prescrive che tutti gli uomini vengano considerati naturalmente uguali:

Dunque, se gli uomini sono per natura uguali fra di loro, dobbiamo riconoscere la loro uguaglianza; se sono disuguali, poiché lotterebbero fra di loro per il potere, è necessario, per conseguire la pace, che siano considerati uguali. Di conseguenza, è in ottavo luogo un precetto della legge naturale che ciascuno sia considerato uguale agli altri per natura. A questa legge è contraria la SUPERBIA.

Hobbes, pertanto, non si allontana molto dai principi poi accolti da Rousseau circa la nascita della disuguaglianza e di cui abbiamo parlato nel precedente paragrafo.

4)Una quarta analogia concerne la volontà dello Stato. Per entrambi, la volontà dello Stato, una volta posto in essere, deve coincidere con la volontà dei cittadini. E’ quanto afferma Hobbes, in questo passo del De Cive:

La volontà del consiglio o dell’uomo cui è stato attribuito il potere supremo è la volontà dello Stato. Essa quindi comprende le volontà dei singoli cittadini; dunque, chi detiene il potere supremo non è tenuto alle leggi civili (questo sarebbe obbligarsi verso se stessi), né ad alcun cittadino.

Egli aggiunge inoltre che la volontà costitutiva dello Stato deve essere unica:

Poiché dunque il cospirare di molte volontà ad un medesimo fine non basta alla conservazione della pace e ad una difesa stabile, si richiede che, riguardo alle cose necessarie per  la pace e la difesa, la volontà di tutti sia unica. Ma questo non può avvenire, se ciascuno non sottomette la propria volontà alla volontà di un solo altro, sia un uomo solo o un solo consiglio, in modo che sia considerato come volontà di tutti e di ciascun singolo, quello che costui avrà voluto, riguardo alle cose necessarie alla pace comune. 

Come non ricollegare questa idea a quella rousseauiana di indivisibilità della volontà generale? Leggendo le pagine del filosofo di Ginevra, pare quasi di risentire l’eco di Hobbes quando scrive quanto segue:

La volontà costante di tutti i membri dello Stato è la volontà generale; è la volontà generale che li fa cittadini e liberi. Quando nell'assemblea del popolo si propone una legge ciò che si chiede loro non è precisamente se approvano o no la proposta, ma se questa è, o no, conforme alla volontà generale che è la loro volontà; ciascuno, votando, dice il suo parere in proposito, e dal computo dei voti si ricava la dichiarazione della volontà generale.

Frontespizio dell'Origine della disuguaglianza (1755) 

     5)L'ultima analogia qui considerata attiene alla forma di governo democratico. I due filosofi sembrano ritenere la democrazia una forma di governo soggetta facilmente a guerre civili e, in linea di principio, contro natura. In un primo momento non ci si aspetterebbe certo di leggere frasi simili nelle opere di Rousseau, eppure ecco che cosa è riportato nel Contratto sociale:

Volendo prendere il termine nella sua rigorosa accezione, una vera democrazia non è mai esistita e non esisterà mai. E’ contro l’ordine naturale che la maggioranza governi e la minoranza sia governata.

             E poco dopo aggiunge:

[…] nessun governo è soggetto a guerre civili e subbugli interni più di quello democratico o popolare, perché nessun altro tende con più forza e costanza a mutar di forma, o richiede più vigilanza e coraggio per essere mantenuto nella forma che ha.

Per concludere, con il citare questi cinque esempi (probabilmente solo alcuni tra i molti) si è voluto semplicemente dimostrare che sarebbe in errore chi volesse considerare i pensieri politici dei due autori considerati necessariamente antitetici. Certo, Hobbes viene comunemente ritenuto un sommo teorico dell’assolutismo e del potere dello Stato, laddove Rousseau uno dei capisaldi dell’egualitarismo e del potere del popolo. Il primo è ancora annoverato tra i padri spirituali del conservatorismo, il secondo del socialismo. E tuttavia non si creda che soltanto per il giudizio che ne offrono i posteri (molto spesso ricolmo di pregiudizi o imprecisioni) le loro idee politiche fossero poi davvero così lontane: le analogie riscontrate tra i due dovrebbero indurci a credere il contrario. Certo è che considerandone le analogie, nessuno deve cadere nella trappola di nascondere o minimizzare le pur sempre grandi differenze.

 
Frontespizio originale del De Cive (1642)

Dopo quanto esposto ci auguriamo di essere stati sufficientemente capaci di dimostrare che tanto lo stato naturale che quello civile presentano entrambi dei pregi e dei difetti. Se ciò dipenda dalla natura intrinseca dell’uomo, questo lo stabilirà a un buono filosofo o teologo. E’ certo che allo stato di natura la propria salvaguardia e sicurezza dipende esclusivamente dalle nostre forze, e che pertanto non sia desiderabile sopravvivere in una condizione in cui nulla è garantito in maniera certa, nemmeno la propria vita. Ma neppure lo Stato si rivela sempre una valida alternativa. Basti pensare alle milioni di persone che, in tutto il mondo e in ogni tempo, hanno dovuto patire all'interno di Stati sorretti da dittature ed autocrazie spietate e sanguinarie, o quanti hanno dovuto subire le gravi oppressioni e persecuzioni dei regimi totalitari e liberticidi. In confronto, l’imposizione fiscale dei moderni Stati democratici appare come una manna (entro certi limiti, si intende) se si considera che essa costituisce, in fondo, l’unico vero obbligo che ci viene chiesto di adempiere nei confronti della bandiera.
D'altronde Hobbes stesso non nasconde il fatto che l’istituzione dello Stato non costituisce la fine dei guai degli uomini. Resta infatti, per il filosofo inglese, un perfetto stato naturale, ossia di guerra, nei rapporti internazionali. Come avveniva per gli uomini in natura, così similmente nel rapporto tra Stati sarà quello più potente a sopraffare, depredare ed annullare quello più debole.
Vi sono poi forze superiori, quali l’iper-demografia, che nessun freno politico o contratto sociale può contenere.
Ecco cosa dice Hobbes a riguardo:

E, quando il mondo fosse completamente sovraccarico di abitanti, allora l’estremo rimedio di tutto sarebbe la guerra; che provvederebbe a ciascun uomo con la vittoria o con la morte.

La condizione per sopravvivere dipende come sempre dalle proprie capacità organizzative e dalla propria potenza militare. La forza, come sempre, prevale sul diritto: non sono forse state sempre le spade e le baionette, in fondo, a forgiare gli imperi? Non certo i contratti sociali: semmai essi li hanno legittimati a posteriori. Forse allora che questo significhi che lo Stato nasca dal conflitto? Può darsi.
Sarebbe interessante concludere il nostro discorso con un interrogativo, e chi vorrà potrà rispondere. Lo stato di guerra tra uomini può essere superato dall'uscita dallo stato di natura, ma come si può superare lo stato di guerra tra Stati? In altre parole, come si può giungere alla pace nel mondo?
I teologi cristiani proposero come soluzione l’universale Respublica Christiana, Kant nel suo Zum ewigen Frieden una confederazione globale, i pensatori marxisti l’abolizione delle classi e dello Stato, Woodrow Wilson la Lega delle Nazioni e su questa scia i partecipanti alla Conferenza di San Francisco, nel 1945, quello straordinario organo di deterrenza costituito dalle Nazioni Unite. Ma l'obiettivo è stato poi concretamente raggiunto? 




Riferimenti bibliografici:

T. Hobbes, Leviatano, Bari, Laterza, 2010.

T. Hobbes, De Cive, Roma, Editori Riuniti, 2005

J. J. Rousseau, Origine della Disuguaglianza, Milano, Feltrinelli, 2008.

J. J. Rousseau, Il Contratto Sociale, Bari, Laterza, 2006.



"When all the world is overcharged with inhabitants,
then the last remedy of all is war, which provideth
for every man, by victory or death" - Thomas Hobbes

martedì 3 marzo 2015

Il racconto del buon selvaggio e del Leviatano: un confronto tra Rousseau ed Hobbes intorno alla società naturale e politica




Abbiamo già considerato in precedenti pubblicazioni le caratteristiche dell’uomo nello stato di natura e nello stato civile. Cercheremo di capire ora quali siano i principali pregi e difetti di ambedue gli stati. Mentre infatti l’uomo è verosimilmente sempre uguale, e cioè portatore di eguali qualità o demeriti sia in natura che in società, le due condizioni analizzate sono invece sicuramente diverse: o meglio, esse presentano pure delle analogie, ma specialmente delle differenze: poiché, infatti, se l’uomo è sempre lo stesso, le sue condizioni di vita possono mutare per cause che forse nemmeno lui si accorge di aver prodotto.

Per confrontare i due stati ci serviremo del pensiero politico di due capisaldi della filosofia politica, pietre miliari della storia delle dottrine politiche, le cui idee su questo argomento risultano essere pressappoco antitetiche: Hobbes e Rousseau, ossia di un celebre denigratore dello stato di natura e di un suo altrettanto famoso apologeta. 
Thomas Hobbes

Cominciamo con Hobbes, che ci presenta tutti i vantaggi e i pregi dello stato civile, sottolineando tutti gli svantaggi dello stato di natura. Egli parte dal presupposto che lo stato di natura, come già visto, sia una condizione di anarchia violenta, in cui ogni individuo può porre in essere qualunque azione senza venire punito, in quanto la natura stessa avrebbe concesso a ciascun individuo il diritto a tutte le cose. Questo dato di fatto comporta che lo stato di natura consista in una condizione di guerra permanente di tutti contro tutti (riassunta con la celebre espressione di bellum omnium contra omnes). E’ una condizione in cui non v’è crimine, in quanto non esiste legge civile né comune biasimo, ed in cui ognuno è pertanto giudice esclusivo delle proprie azioni; non essendovi, infatti,  un potere sovrano, ognuno ha la facoltà di proteggersi da sé come meglio può e crede.
Esistono qui, è vero, delle leggi naturali che possono essere carpite mediante la retta ragione e che permettono di far sopravvivere l’uomo attraverso la cessazione dello stato di guerra, ma è altrettanto vero che manca un potere coercitivo che le renda certe ed esecutive.
Dipendendo, quindi, la loro applicazione esclusivamente dalla buona volontà dei singoli, le leggi di natura per ciò stesso non possono essere sufficienti a garantire la pace, e questo proprio perché non garantiscono a nessuno alcuna sicurezza ad osservarle.
Da ciò deriva, di necessità, che lo stato di guerra permanente possa venire interrotto solo istituendo lo Stato, cui viene data la luce attraverso un patto sociale artificiale che necessità di una potestà comune che governi con il timore della pena. La natura dello Stato così creato prevede la totale sottomissione al potere sovrano - sia esso un uomo o un’assemblea -, a cui i consociati alienano quei diritti naturali in eccesso che offrivano la facoltà di nuocere ai propri simili. In questo modo lo Stato ne diveniva esclusivo titolare e aveva facoltà di utilizzarli a vantaggio di tutti per la difesa comune contro i nemici interni e, soprattutto, esterni. Lo Stato costituito per patto deve avere le caratteristiche di uno Stato assoluto, nel senso che il sovrano non deve in alcun modo condividere la sovranità con altri, separando i tre poteri e costituendo un governo misto, né la stessa autorità sovrana può essere soggetta a critiche o messa in discussione: se ciò avvenisse, infatti, riemergerebbero, con le sedizioni, le congiure e le faziosità, i germi dello stato di guerra, che condurrebbero gli individui alla guerra civile e al ritorno all'anarchico e violento stato di natura.
Il sovrano, pertanto, deve essere obbedito, anche se un suo ordine può apparire secondo il giudizio privato dei cittadini, sbagliato o ingiusto; inoltre, lo stesso sovrano, essendo assoluto, non è soggetto alle leggi che emana.
Da quanto scritto emerge che il nucleo del pensiero politico hobbesiano consiste nell'obbedienza al potere costituito e ciò per evitare una volta per sempre lo stato di guerra tra gli uomini. Hobbes considera lo Stato un male necessario: esso è l’unico mezzo che l’uomo possiede per evitare le eccessive violenze e miserie naturali, che finirebbero per sopraffarlo rapidamente. E’ vero che lo Stato nasce dal timore reciproco, prodotto dalle caratteristiche stesse dell’essere umano allo stato naturale, ma è pur vero che esso rappresenta un male minore rispetto al bellum omnium contra omnes: anzi, esso risulta proprio un male necessario, un’alternativa meno amara. Queste conclusioni che trae il filosofo inglese non sarebbero state possibile se avesse avuto una visione meno pessimistica sulla natura in genere e sull'essere umano in particolare. Il brano che segue, tratto dal De Cive costituisce una valida sintesi dei pregi dello stato civile hobbesiano:

Fuori dello stato civile, ciascuno ha una libertà del tutto completa, ma sterile, poiché chi, per la sua libertà, fa tutte le cose a suo arbitrio, per la libertà degli altri patisce tutte le cose, ad arbitrio altrui. Invece, una volta costituito lo Stato, ciascuno dei cittadini conserva tanta libertà, quanto basta per vivere bene e con tranquillità; e agli altri ne viene tolta tanta, da non renderli più temibili. Fuori dello Stato ciascuno ha il diritto a tutte le cose, ma nessuno gode con sicurezza di un diritto limitato. Fuori dello Stato, chiunque può essere legittimamente spogliato e ucciso da chiunque altro. Nello Stato, soltanto da uno. Fuori dello Stato, siamo protetti soltanto dalle nostre forze. Nello Stato, dalle forze di tutti. Fuori dello Stato il frutto dell’industria non è sicuro per nessuno; nello Stato, per tutti. Infine, fuori dello Stato, è il potere delle passioni, la guerra, la paura, la miseria, la bruttura, la solitudine, la barbarie, l’ ignoranza, la crudeltà; nello Stato, il potere della ragione, la pace, la sicurezza, la ricchezza, lo splendore, la società, la raffinatezza, la scienza, la benevolenza. 

Non c’e dubbio che se fosse questa la situazione in natura, è più che ragionevole volerne uscirne.
E tuttavia  non si possono non scorgere, nel pensiero politico di Hobbes, degli elementi che, a nostro modo di vedere, presentano dei problematici difetti. Il più grande è dato dal fatto che lo Stato hobbesiano è dotato di una potestà assoluta irresistibile, essendo appunto un Leviatano, cioè un mostro. Esso è talmente indistruttibile e potente da essere virtualmente in grado di schiacciare senza contrasti qualunque forza gli si opponga, sia di natura interna che esterna. Quantunque esso sia stato istituito attraverso un patto sociale espressione della volontà dei costituenti stessi, esso resta dotato di un potere potenzialmente illimitato, che, tra le altre cose, gli offrirebbe la facoltà di espropriare le proprietà dei sudditi, di essere svincolato dalle sue stesse leggi, di accentrare i tre poteri statuali nelle mani di un solo organo e che obbligherebbe la volontà dei cittadini a coincidere perfettamente con la propria. E’, in una parola, uno Stato che esige una cieca obbedienza per evitare il ritorno allo stato di guerra naturale. Forse non fu teorizzato mai nulla di così vicino ad uno Stato totalitario tout-court.
Jean-Jacques Rousseau

Per quanto attiene Rousseau, invece, lo stato di natura è una condizione in cui l’uomo non nuoce il proprio simile a meno che non sia per lo scopo di legittima difesa, in cui è disuguale ad altri uomini solo per ragioni fisiologiche e non politiche, in cui vive in maniera semplice, uniforme e solitaria, ed in cui è mosso da innata pietà nel soccorrere i suoi simili. Marcatamente esso si caratterizza, poi, per l’assenza di proprietà privata, la quale nacque come conseguenza della scoperta dell’agricoltura, che comportò la divisione dei lotti di terraFu la società civile a dar vita allo stato di guerra tra gli individui e ad essere all'origine di tutti i mali dell’uomo. Fu con essa che sorse la disuguaglianza, che sarebbe altrimenti ben minore in natura, come conseguenza della nascita della proprietà privata e della divisione del lavoro. La diffusione della proprietà privata e la distribuzione diseguale delle ricchezze e dei patrimoni fecero addirittura sorgere all'interno della società civile la schiavitù e l’oppressione dei popoli. Ed è perciò profondamente ipocrita e malvagia questa società civile, laddove la condizione più desiderabile sarebbe lo stato naturale, che si colloca a metà strada tra l’indolenza originaria dell’uomo primitivo e la società civile coeva piena d’amor proprio ed ingiustizia.
Nonostante tutte queste amare critiche nei confronti dello stato civile, però, Rousseau non è contrario all'idea di istituire uno Stato o una società politica. Al contrario, egli sostiene che la disuguaglianza sociale possa essere evitata proprio all'interno di uno Stato posto in essere dalla stipulazione di un contratto sociale espressione della volontà generale della nazione. Dal momento che è la collettività stessa a farlo proprio, lo scopo del contratto sarà quello di fondare una società giusta, che si fondi sull'uguaglianza morale e politica, e che, tra le disuguaglianze naturali, mantenga solo quella fisico-biologica. Siffatto Stato sarà per forza di cose democratico: al suo interno, infatti, ogni decisione popolare deve provenire da organi politici legittimi, ossia legittimati dalla volontà sovrana dei consociati stessi, e per ciò stessi giusti ed equi, in quanto nessuno avrebbe mai intenzione di costituire qualcosa di nocivo per se stesso.
Da ciò si evince che, volendo accettare l’idea rousseauiana che dentro lo stato civile siano presenti le cause principali della disuguaglianza e della schiavitù, appare senz'altro preferibile lo stato naturale di libertà ed autosufficienza. Ma ecco che se pure esso possa apparire pregevole, non è sempre detto che il pensiero democratico sia esente da difetti. Uno dei difetti principali del ragionamento di Rousseau è, invero, proprio la tipologia di Stato che intende creare attraverso il contratto sociale. Paradossalmente esso non è altro che un’altra specie di Leviatano. Volendo, infatti, costituire uno Stato democratico che è espressione della volontà generale dei consociati e che deve far dipendere ogni suo atto legittimo dalla medesima equivale, in un certo senso, a riproporre, similmente a quanto fatto da Hobbes, un altro modello di Stato totalitario in cui la volontà della maggioranza soverchia e annulla quella della minoranza. Un simile “Leviatano dei cittadini”, se portato alle estreme conseguenze, conduce direttamente all'idea di “tirannide della maggioranza” di cui parlava Tocqueville.

Per riassumere, i pregi dello stato civile hobbesiano consistono nel far cessare lo strato di guerra perenne, mentre i difetti di quello di Rousseau nella condizione di disuguaglianza ed ingiustizia che al suo interno si vengono a manifestare; viceversa, i difetti dello stato naturale di Hobbes sono caratterizzati dai suoi tratti tipicamente anarchici, caotici e violenti, mentre i pregi di quello rousseauiano si concentrano nell'idea che la condizione umana sia prossima all'uguaglianza, alla spontaneità e alla pietà verso i consimili. Al contrario, i difetti dello stato civile hobbesiano consistono nella creazione di un potere assoluto e totalitario cui si deve stretta obbedienza, mentre i pregi di quello di Rousseau prevedono che esso possa annullare la disuguaglianza politica nel momento in cui il contratto istitutivo è espressione della volontà generale dei costituenti; viceversa i difetti dello stato di natura di Rousseau fanno sì che non esista una potestà comune per rendere certe le condizioni umane in esso, mentre i suoi pregi nel pensiero politico hobbesiano sono, in verità, del tutto assenti.


Riferimenti bibliografici:

A. de Tocqueville, La Democrazia in America, Torino, UTET, 2007.

T. Hobbes, Leviatano, Bari, Laterza, 2010.

T. Hobbes, De Cive, Roma, Editori Riuniti, 2005.

J. J. Rousseau, Origine della Disuguaglianza, Milano, Feltrinelli, 2008. 

J. J. Rousseau, Il Contratto Sociale, Bari, Laterza, 2006.

lunedì 2 marzo 2015

Il fine dello Stato e la sua dissoluzione: considerazioni filosofiche



Si è già detto in precedenza che lo Stato nasce per garantire agli individui quella sicurezza che risulta essere precaria in natura. I consociati decidono di unire le proprie forze per difendersi da pericoli esterni e, attraverso la divisione del lavoro, di offrire dei beni e dei servizi al resto della comunità, ricevendone in cambio degli altri. Fin qui tutto bene. Ma poi cos'altro?
E’ possibile mai che lo Stato debba costituirsi solamente per soddisfare lo scopo della mera sopravvivenza?
Secondo Aristotele, lo scopo dello Stato dovrebbe essere quello di migliorare, in termini assoluti, le condizioni di vita umane. Dice infatti il grande stagirita nella sua Politica che lo Stato sorge per rendere possibile la vita e sussiste per produrre le condizioni di una buona esistenza.
Una versione manoscritta del De Civitate Dei
di Sant'Agostino
Per S. Agostino, invece, il fine desiderabile dell’individuo sarebbe la pace, e quindi la società politica non dovrebbe perseguire altri fini se non il medesimo: di ricercare la pace, ossia la pace dei giusti, che è quella pace che si sorregge sui principi cristiani della giustizia, e che concettualmente è conseguente all'idea di “guerra giusta”, da lui stesso teorizzata.
Al contrario, Spinoza sostenne che il fine dello Stato dovesse essere la libertà, intendendo con ciò dire che lo Stato doveva essere costituito per offrire agli esseri umani un’esistenza felice, razionale e aperta, nell'ottica di una società tollerante, non oppressiva, cosmopolita e rispettosa dei diritti naturali di ogni persona. Dice infatti Spinoza:

Il fine dello Stato, dico, non è quello di trasformare gli uomini da esseri dotati di ragione in bestie o automi, ma al contrario di far sì che il loro corpo e la loro mente possano compiere con sicurezza le loro funzioni, ed essi possano servirsi della libera ragione, e non lottino l’uno contro l’altro con odio, ira o inganno, né si lascino trasportare da passioni inique. In verità, dunque, il fine dello Stato è la libertà.

Per quanto riguarda Hobbes, la sua visione circa lo scopo dello Stato è una visione essenzialmente utilitaristica, poiché il suo obiettivo sarebbe unicamente quello di salvaguardare in perpetuo gli uomini dai nemici e dal bisogno.
Né Rousseau trae conclusioni molto dissimili, quando parla dello scopo del contratto sociale: esso, dovrebbe semplicemente consentire la conservazione degli uomini.
Già da quanto finora riportato risulta con sufficiente chiarezza che lo Stato avrebbe prevalentemente l’unico scopo di garantire un’esistenza quanto più desiderabile per gli individui. Affermando infatti che esso serva a tutelare una “buona esistenza”, “la pace”, “la libertà”, “la salvaguardia” o la “conservazione” equivale pressappoco a dire la stessa cosa.

Più interessante, invece, risulta l’analisi delle condizioni che possono determinare la dissoluzione della società civile. Generalmente parlando, lo Stato si può dissolvere per le stesse ragioni per cui può costituirsi. Se infatti, come visto, esso viene a generarsi o attraverso il conflitto o attraverso il contratto, anche la dissoluzione avverrà o per cause violente o per cagioni di natura consensuale.
Nel primo caso, si contemplano, almeno teoricamente, due possibilità parimenti studiate dalla sociologia politica e dal diritto internazionale:

 Causa di dissoluzione esterna = Comprende tutti i casi in cui lo Stato si dissolve a causa di un’aggressione esterna di natura politico-militare. In questo caso lo Stato può venire o completamente assorbito dallo Stato invasore (caso dell’annessione) oppure può continuare a sopravvivere con un mutato governo e denominazione. Una variante non violenta dell’annessione, che quindi non dovrebbe comparire in questo punto, si può avere nel caso in cui uno Stato decida volontariamente di divenire parte di un altro, proponendo dunque di sciogliersi (caso dell’incorporazione: è il caso della Germania Est, che decise di incorporarsi alla Germania Ovest nel 1990) . Non è affatto detto, tuttavia, che in seguito ad una sconfitta militare lo Stato debba per forza sciogliersi; esso infatti potrà continuare senz'altro a sopravvivere nel caso in cui, in seguito ad un trattato di pace, l’aggressione militare avrà comportato solamente la perdita di alcuni territori o, alternativamente, la statuizione di clausole di natura non territoriale quali la smilitarizzazione, il pagamento di danni di guerra, la cessione di alcuni diritti, la stipulazione di accordi commerciali, il mutamento di governo, e così via (tanto più che ormai la Carta delle Nazioni Unite tutela l’integrità territoriale degli Stati e condanna qualunque aggressione militare non giustificata dai fini stessi che la Carta si propone).


Causa di dissoluzione interna = Comprende, invece, tutti i casi in cui uno Stato si dissolve a causa di fenomeni politici interni quali le rivoluzioni, le lotte d’indipendenza, le guerre civili, le insurrezioni, ecc. Tra le varie possibilità vi può essere quella che una o più regioni di uno Stato decidano di rendersi indipendenti, dando vita sul loro territorio ad un nuovo Stato sovrano (caso della secessione: il noto esempio è quello degli Stati confederati meridionali che decisero di secedere dagli Stati Uniti d’America nel 1861), o quella in cui più regioni o nazioni all'interno di uno Stato decidano di rendersi indipendenti, conducendolo alla dissoluzione (caso dello smembramento: è il caso della Jugoslavia tra il 1991 e il 1995, sebbene c’è chi ritenga che la Serbia sarebbe stata la diretta continuatrice dello Stato jugoslavo. Non parrebbero esservi dubbi, invece, che un esempio di smembramento sia costituito dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991): la differenza tra il primo e il secondo caso è che con la secessione lo Stato ad essa antecedente continua ad esistere, mentre con lo smembramento esso scompare. Vi possono essere poi i casi in cui una rivoluzione o una lotta per l’indipendenza rovescino il governo costituito, dando vita ad uno Stato sorretto da un nuovo governo rivoluzionario: se tale governo si sorregge su principi politici del tutto incompatibili con quelli del governo predecessore, è probabile allora che il precedente Stato possa considerarsi estinto, specialmente nel caso in cui il governo rivoluzionario decida di mutarne il nome e le istituzioni politiche: è il caso dell’Impero russo in seguito alla rivoluzione bolscevica dell’ottobre del 1917 e della successiva nascita dell’Unione Sovietica nel 1922. Altri casi si sono avuti con la lotta d’indipendenza dalla dominazione coloniale, che comportarono spesso il mutamento del nome dello Stato.

Riguardo invece alla dissoluzione consensuale, è illuminante riportare quanto affermato da Rousseau nel Contratto Sociale. Egli sostiene infatti di

non esservi nello Stato nessuna legge fondamentale che non possa venir revocata, neppure il patto sociale. Infatti, se tutti i cittadini si riunissero per rompere questo patto di comune accordo, non c’è dubbio che verrebbe rotto in forma legittima.

E’ quindi abbastanza chiaro che nell'ottica di Rousseau la volontà generale della nazione potrebbe, se esprimesse parere positivo in questo senso, sciogliere la società civile e restaurare il preesistente stato di natura.
Tra l’altro, parrebbe che in linea di massima anche Hobbes non si opporrebbe a quest’idea, anche se da un ritorno allo stato di natura, secondo il suo pensiero politico, l’uomo ci avrebbe tutto da perdere. E ciononostante il filosofo inglese si sofferma pure su argomenti di natura più tecnica (alcuni dei quali possono apparirci oggi quasi umoristici) tesi a mostrare quali elementi comporterebbero l’indebolimento e la dissoluzione dello Stato - argomenti che sono poi alla base dell’ “assolutismo” hobbesiano - :
1) La mancanza di potere assoluto, 2) il giudizio privato del bene e del male, 3) gli errori di coscienza e la pretesa di ispirazioni soprannaturali, 4) la subordinazione del potere sovrano alle leggi civili, 5) l’attribuzione ai sudditi di un diritto di proprietà assoluta, 6) la divisione del potere sovrano, 7) l’imitazione delle nazioni vicine e dei modelli politici “libertari” dell’antichità classica, 8) la supremazia dell’autorità spirituale su quella politica, 9) il governo misto, 10) le ristrettezze finanziarie dell’erario, 11) i monopoli commerciali, 12) gli uomini popolari e ambiziosi, 13) l’eccessiva estensione territoriale dello Stato, 14) la libertà di contestare il potere sovrano, 15) la volontà insaziabile di estendere il proprio dominio politico, 16) la conquista di nazioni non integrate, 17) la letargia nel benessere, 18) le spese inutili, 19) la sconfitta in guerra con conseguente deposizione e/o abdicazione del sovrano.
In conclusione, possiamo affermare che, indipendentemente da quali siano i metodi utilizzati per la dissoluzione, le possibilità per gli esseri umani risultano in quella circostanza due sole: o tornare allo stato di natura o sottostare al dominio e alla potestà di un nuovo Stato. 

Allegoria della distruzione del Leviatano

Riferimenti bibliografici:

Aristotele, Politica e Costituzione di Atene, Torino, UTET, 2006.
Sant'Agostino, La Città di Dio, Milano, Mondadori, 2011.
L. Gambino, Brani di Classici del Pensiero Politico, Torino, Giappichelli, 2002.
T. Hobbes, Leviatano, Bari, Laterza, 2010.
J. J. Rousseau, Il Contratto Sociale, Bari, Laterza, 2006.


giovedì 26 febbraio 2015

Gli elementi costitutivi fondamentali dello Stato



Gli Stati sovrani del mondo, come è noto, non sono gli unici soggetti di diritto internazionale. Il diritto internazionale contemporaneo, infatti, attribuisce anche ad altre entità organizzative uno status specifico, che in alcuni casi garantisce loro perfino il treaty-making power, ossia il potere di concludere trattati internazionali vincolanti (tra i soggetti di diritto internazionale di natura non statuale possiamo ricordare le organizzazioni internazionali e soggetti particolari quali la Santa Sede, il Sovrano Ordine di Malta, la Croce Rossa Internazionale, ecc). E tuttavia, qualunque altra entità ed istituzione politica internazionalmente riconosciuta si differenzia al suo interno dallo Stato, essendo priva di almeno uno dei suoi elementi costitutivi.
Ma quali sono, dunque, gli elementi costitutivi dello Stato? E’ generalmente accolta l’idea che essi siano almeno i tre seguenti:

1) La popolazione.

2) Il territorio. 

3) La sovranità.

Riguardo al primo punto, non si potrebbe davvero concepire uno Stato che fosse privo di popolazione. Sono infatti i cittadini a costituirne le fondamenta e lo spirito stessi. Spetta ai cittadini di formare il governo del Paese, di rivestire le cariche pubbliche, di rappresentare il proprio Stato all'estero, di infoltire i ranghi delle forze armate, di applicarne il diritto e, nel caso delle democrazie, di eleggere i propri rappresentanti. Quindi uno Stato senza popolazione è altrettanto inconcepibile di un pesce senza branchie: esso non potrebbe sopravvivere.
Né è ipotizzabile uno Stato privo di territorio, ossia uno Stato che non si estenda, almeno per una piccola quota, su una porzione geografica di terra emersa. Tutti gli Stati del mondo, in ogni tempo e luogo, si sono diffusi, ad eccezione delle proprie acque territoriali, sulla terraferma e non in alto mare, cioè nella porzione del globo in cui la sopravvivenza risulta possibile.
Rousseau approfondì lo studio del rapporto tra Stato e territorio e tra territorio e popolazione, giungendo alle seguenti conclusioni:

Come la natura ha posto alla statura degli uomini ben conformati dei termini oltre i quali produce solo giganti o nani, così, quanto alla migliore costituzione di uno Stato, ci sono dei limiti all'estensione che esso può avere, perché non sia né troppo grande per poter essere ben governato, né troppo piccolo per potersi conservare da sé. Per ogni corpo politico esiste un maximum di forza che non va oltrepassato, e da cui spesso si allontana a furia di ingrandirsi. Più il legame sociale si estende più si allenta, e, in generale, uno Stato piccolo è, in proporzione, più forte di uno grande.

Inoltre, egli sottolineò pure come l’esistenza geografica di uno Stato dovesse coincidere con il numero della popolazione abitante:

Si può misurare un corpo politico in due modi: dall'estensione del territorio e dalla consistenza numerica della popolazione; tra l’una e l’altra misura vi è un rapporto conveniente per dare allo Stato la sua vera grandezza. Sono gli uomini che fanno lo Stato ed è la terra che nutre gli uomini; il rapporto conveniente, pertanto, si ha quando la terra basta a nutrire gli abitanti e gli abitanti sono tanti quanti la terra ne può nutrire. In questa proporzione risiede il maximum di forza di un certo numero di abitanti; infatti, se c’è un eccesso di terra la difesa è gravosa, insufficienti le culture, sovrabbondante il prodotto; si ha la causa prossima delle guerre difensive; mentre, se la terra non basta, lo Stato si trova a dipendere dai vicini per supplire alla scarsezza dei prodotti e si ha la causa prossima della guerra d’offesa […].

Il terzo elemento fondamentale senza cui lo Stato non può sussistere è la sovranità.
Essa, per darne una brillante definizione di Bodin,

è il vero fondamento, il perno su cui poggia l’assetto dello Stato, da cui dipendono tutti i magistrati [ossia le cariche pubbliche], le leggi, le ordinanze [i decreti governativi]; è la sola unione e il legame di famiglie, corpi, collegi e di tutti i privati in un corpo perfetto, lo Stato.

E poco dopo prosegue dicendo che “la sovranità è il potere assoluto e perpetuo dello Stato.”

Come si può vedere, quindi, la sovranità offrirebbe al suo detentore delle prerogative pubbliche fondamentali, tra cui quella di legiferare. Per Bodin, tra l’altro, il titolare del potere sovrano (in questo caso il monarca assoluto) non sarebbe vincolato dalle leggi da lui emanate, essendo espressione della sua volontà, e dunque ad esso conseguenti: è il celebre principio del rex legibus solutus est che caratterizzava marcatamente le monarchie assolute.
Anche Rousseau ci offre un’ originale definizione di sovranità:

Come la natura dà a ciascun uomo un potere assoluto su tutte le sue membra, il patto sociale dà al corpo politico un potere assoluto su tutte le sue, ed è questo medesimo potere che, diretto dalla volontà generale, porta, come ho detto, il nome di sovranità.

Secondo il filosofo ginevrino una delle caratteristiche peculiari della sovranità sarebbe la sua inalienabilità:

Dico dunque che la sovranità, non essendo che l’esercizio della volontà generale, non può mai alienarsi, e che il sovrano, essendo solo un ente collettivo, non può essere rappresentato che da se stesso; il potere può, sì, essere trasmesso, ma non la volontà.

Altra caratteristica che la contraddistinguerebbe è la sua indivisibilità:

La sovranità, per la stessa ragione per cui è inalienabile, è anche indivisibile. Infatti la volontà o è generale o non lo è; è la volontà del corpo popolare o solo di una parte. Nel primo caso questa volontà dichiarata è un atto sovrano e fa legge; nel secondo è solo una volontà particolare, o un atto di magistrature; tutt'al più un decreto.

In ultima analisi, ciò che emerge è che la sovranità consiste nella facoltà di chi la detiene di poter autodeterminare le proprie sorti politiche senza l’ingerenza o il freno di poteri superiori, pari o inferiori. Certo, storicamente si hanno avuti esempi di Stati dalla sovranità limitata sia per ragioni politiche - si pensi ai casi di vassallaggio, reggenza, temporanea fusione dinastica, condominio con Paesi terzi, governi in esilio, sottoposizione a tributo, dominio coloniale, ecc. - sia per ragioni economiche - come nei casi di dipendenza economico-commerciale con l’estero, insufficienza di risorse naturali, vincoli provenienti da unioni doganali, mercati comuni o unioni economiche, ecc. -, tuttavia, almeno teoricamente il concetto non cambia: a parità di condizioni, la sovranità garantisce ad uno Stato il libero ed assoluto esercizio del potere di autodeterminazione senza l’intervento di ingerenze esterne, pur nel rispetto del diritto internazionale e delle convenzioni e consuetudini generalmente accolte nel mondo.

In conclusione, non pretendiamo di aver riportato tutti gli elementi caratteristici di uno Stato; probabilmente, infatti, essi sono più di tre. In ogni caso, però, se la loro lista sarebbe potuto essere più ricca, sicuramente non avrebbe potuto non ricomprendere quelli contemplati in questa sede. Senza di loro, o perdendone anche solo uno, lo Stato virtualmente si estinguerebbe. 


Riferimenti bibliografici:

J. J. Rousseau, Il Contratto Sociale, Bari, Laterza, 2006.

L. Gambino, Brani di Classici del Pensiero Politico, Torino, Giappichelli, 2002.


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