La decisione dell’Italia di scendere in guerra contro i
formali alleati della Triplice Alleanza, al fianco della potenze della Triplice
Intesa, fu presa in considerazione delle cospicue promesse che inglesi,
francesi e russi le avevano garantito sin dalla conclusione del Patto di Londra
dell’aprile 1915. Allo scoppiare del conflitto, nell'estate del 1914, l’Italia
aveva deciso, nonostante l’accesa polemica sorta al suo interno tra
interventisti e non-interventisti, di mantenere una linea di neutralità. Ciò era
possibile in quanto la Triplice Alleanza, di cui l’Italia era firmataria sin
dal 1882, e che era poi stata sistematicamente rinnovata, era un’alleanza di
natura difensiva che, in quanto tale, obbligava le parti contraenti a scendere
in campo insieme solo nell'eventualità di un attacco da parte di uno Stato
terzo nei confronti di un alleato. Ciononostante, in seguito all'attentato di
Sarajevo da parte di un cittadino serbo-bosniaco costato la vita all'arciduca Francesco
Ferdinando d’Asburgo (28 giugno 1914), l’Impero austro-ungarico aveva inviato
un ultimatum al Regno di Serbia, preludio della formale dichiarazione di
guerra. Si comprende allora che il casus
foederis della Triplice Alleanza non era potuto scattare in quando l’Austria-Ungheria
appariva come Stato aggressore. In questo senso, quindi, l’Italia decise di
mantenere un atteggiamento di neutralità.
Al contempo, negli anni che precedettero lo scoppio del primo
conflitto mondiale, l’Italia si era gradualmente avvicinata alle potenze dell’Intesa,
soprattutto a Gran Bretagna e Francia. Nello specifico, con la Francia erano
stati superati alcuni punti di attrito particolarmente sensibili quali la
Questione romana – che datava 1870, dacché Roma era diventata capitale del
regno italiano – e le contese in ambito coloniale. In quest’ultimo contesto, l’Italia
e la Francia erano riuscite a trovare un accordo per il Nord Africa che
riconosceva alla prima una sfera d’influenza in Tripolitania e Cirenaica –
territori conquistati dall'Italia nel 1912, in seguito alla guerra contro l’Impero
ottomano, e ribattezzati Libia – e alla seconda quella sul Marocco; inoltre, l’Italia
aveva rinunciato ad eventuali rivendicazioni sulla Tunisia a vantaggio della
Francia. Anche con la Gran Bretagna i rapporti erano favorevoli, soprattutto
quando capo del governo italiano era Giolitti. Infine, l'accordo di Racconigi,
stipulato nell'ottobre del 1909 tra l'Impero russo e il Regno d'Italia, avvicinò
significativamente i due paesi: esso rappresentava un patto segreto incentrato
sul mantenimento dello status quo nei Balcani, che, firmato all'insaputa della
Triplice Alleanza e della stessa Austria, aveva per obiettivo quello di ostacolare
l'espansione austriaca nei Balcani (dal 1908, infatti, l’Austria-Ungheria aveva
formalmente annesso la Bosnia-Erzegovina, regione che occupava dal 1878).
Invero, la ricerca di un'area di influenza nei Balcani e nel Mediterraneo sarà
da quel momento in poi una costante nei rapporti diplomatici tra Russia e
Italia. In questo scenario fu dunque possibile concludere nell'aprile del 1915
il Patto di Londra, che impegnava l’Italia a scendere in campo a fianco delle
potenze dell’Intesa – Francia, Gran Bretagna e Russia – contro gli Imperi
centrali – Germania, Austria-Ungheria, Impero ottomano. In termini di
acquisizioni territoriali, il patto prevedeva che a guerra terminata l’Italia
avrebbe ottenuto il Trentino, l’Alto Adige (il Sudtirolo), fino al Brennero, la
Venezia Giulia con l’Istria e una parte molto vasta di Dalmazia. All'Italia si
prometteva anche un’influenza preponderante in Albania. Di conseguenza, l’Italia
accettò di partecipare al conflitto, concludendolo nel 1918 da vincitrice. Quando
si aprì la Conferenza di pace, in Francia, l’entusiasmo dell’Italia era particolarmente
acceso; senonché, le decisioni prese in questa sede delusero sotto molti punti
di vista le aspettative italiane.
Le disposizioni del Patto di Londra (1915) e la Linea Wilson (1919) |
In primo luogo, per quanto riguarda i confini
nord-orientali, l’Italia, rappresentata alla Conferenza da Vittorio Emanuele
Orlando, ottenne solo in parte quei territori promessi dal Patto di Londra. Dallo
smembramento dell’Impero austro-ungarico, infatti, l’Italia ottenne il
Trentino, l’Alto Adige (quest’ultimo non tanto per considerazioni di carattere
nazionalistico quanto per ragioni strategiche di difesa dei confini) e
la Venezia Giulia con l’Istria ma non la Dalmazia, eccezion fatta per la città
di Zara e il suo territorio adiacente (rispetto alle rivendicazioni del 1915, l’Italia
aggiungeva alla Conferenza anche il possesso della città di Fiume). Questa palese
violazione degli accordi del 1915 in virtù dei quali l’Italia era scesa in
guerra fu la conseguenza di due fattori precisi. Il primo fu la nascita dallo
smembramento di parti della Cisleithania (parte austriaca dell’impero austro-ungarico)
con il Trattato di Saint-Germain-en-Laye e della Transleithania (parte magiara
dell’impero austro-ungarico) con il Trattato del Trianon del Regno dei Serbi,
Croati e Sloveni (Regno di Jugoslavia dal 1929). Quando nacque, questa nuova
entità politica ricomprendeva la Carniola, la Croazia, la Slavonia, la
Dalmazia, parte del Banato, la Bosnia e l’Erzegovina; inoltre, essa andò a
fondersi con i preesistenti regni di Serbia e di Montenegro, acquisendo quindi
anche il Sangiaccato di Novi Pazar, il Kosovo e una buona porzione di
Macedonia. Non stupisce che questo nuovo, pericoloso, attore geopolitico
costituisse per l’Italia, che aveva nell'area danubiano-balcanico-adriatica
interessi preminenti, una minaccia assoluta. Il secondo fattore, strettamente
correlato al primo, fu costituito dalla volontà del presidente americano
Woodrow Wilson, rappresentante degli Stati Uniti d’America alla Conferenza di
pace, di applicare il principio di autodeterminazione dei popoli – già espresso
nei suoi celebri Quattordici punti – nella questione confinaria
italo-jugoslava. In nome di tale principio, stando all'intrusivo presidente
americano, l’Italia non poteva rivendicare il controllo della Dalmazia, che era abitata per la maggior parte da slavi meridionali; lo stesso presidente tentò
di risolvere la questione tracciando la “linea Wilson”, che assegnava all'Italia la maggior parte dell’Istria ma attribuiva alla Jugoslavia l’intera Dalmazia
con la città di Fiume/Rijeka. Comprensibilmente, l’Italia si sentì tradita dai
suoi alleati e sorprende constatare come alla fine della guerra il principio di
autodeterminazione nazionale venisse strumentalizzato ai fini degli interessi
dei vincitori (e ciò nonostante l’” idealismo” di Wilson), venendo totalmente
disapplicato nel caso delle popolazioni dei paesi sconfitti: si era infatti
sostenuta l’autodeterminazione degli jugoslavi, dei romeni, dei polacchi, dei
cecoslovacchi, dei greci, ma si era completamente ignorata quella dei magiari,
dei bulgari, dei tedeschi dell’Alto Adige, ecc.
Il Regno dei serbi, croati e sloveni (Regno di Jugoslavia dal 1929) |
La volontà di Wilson di non consegnare né la Dalmazia né
Fiume all'Italia fu gravida di conseguenze. In Italia già si parlava di “vittoria
mutilata”, e quando la delegazione italiana abbandonò i lavori della
Conferenza, già nell'immediato dopoguerra il poeta Gabriele D’Annunzio invadeva
con un manipolo di volontari la città di Fiume al fine di annetterla al Regno d’Italia.
Solo il ritorno di Giolitti al governo parve risolvere in parte la questione ed
instaurare dei rapporti meno tesi con il regno jugoslava: il Trattato di
Rapallo del novembre 1920, infatti, pose fine all'esperienza rivoluzionaria dannunziana
di Fiume, che veniva proclamata città libera; al contempo, l’Italia rinunciava
alle rivendicazioni in Dalmazia pur conservando la città di Zara. Il Trattato
di Rapallo apparve agli occhi degli irredentisti e nazionalisti italiani come
un’onta e la questione dalmata dovette essere riconsiderata. Se infatti la
Convenzione di Santa Margherita Ligure del 1922 parve riconfermare le clausole
del Trattato di Rapallo con l’evacuazione delle truppe italiane dalla Dalmazia,
i Patti di Roma del 1924, conclusi per volontà di Mussolini, modificarono la
condizione di Fiume: la città venne spartita tra Italia e Jugoslavia, cui
veniva concessa la parte di Porto Baros. Si concludeva così, almeno per il
periodo intercorrente le due guerre mondiali, la questione dei confini
orientali italiani. Altre delusioni italiane della Conferenza di pace
risultarono in ambito coloniale. Gli alleati dell’Intesa, istituendo con il
Trattato di Versailles la Società delle Nazioni, avevano deciso di spartirsi
tra di loro le ex colonie dell’Impero tedesco e dell’Impero ottomano attraverso
dei mandati fiduciari per conto della Società stessa. Fu così che Gran
Bretagna, Francia, Belgio, Sudafrica, Portogallo, Giappone e Cina ottennero di
incorporare, sotto una forma o un’altra, i domini tedeschi in Africa, in Asia e
nel Pacifico e quelli ottomani in Medio Oriente. In tutto questo processo all’Italia
non fu riservato alcun ruolo. Le uniche compensazioni coloniali italiane furono
degli esigui territori quali Giuba e Giarabub, posti a confine con i domini
africani britannici.
Gli Accordi Sykes-Picot (1916) |
Altro settore in cui l’Italia perse grandi occasioni, ma
in questo caso non da sola, fu l’Anatolia. Il destino dell’Impero ottomano, il “malato
d’Europa”, era ormai segnato da tempo, e la Grande Guerra ne avrebbe finalmente
decretato la morte. In questo contesto, gli alleati dell’Intesa avevano nutrito
progetti ambiziosi per spartirsi i territori ottomani. L’Accordo segreto
anglo-francese Sykes-Picot del 1916 aveva già stabilito la spartizione dell’Anatolia
in diverse aree di influenza: la Francia avrebbe ottenuto quella sulla Cilicia,
l’Italia quella su Adalia e Smirne, la Russia quella sull'Armenia; inoltre, era
previsto che la Russia ottenesse il controllo degli Stretti, che la Turchia
avrebbe conservato l’Anatolia settentrionale e che i territori arabi dell’Impero
ottomano sarebbero stati divisi tra Francia – che avrebbe ottenuto la Siria con
il Libano – e Gran Bretagna – che avrebbe ottenuto la Mesopotamia e la
Palestina –, ciò che poi si decise di attuare mediante il sistema dei mandati
della Società delle Nazioni. Gli Accordi di San Giovanni di Moriana del 1917
riconfermavano le rispettive aree di influenza in Anatolia, garantendo anche
quella italiana su Adalia, ma tuttavia non poterono essere ratificati a causa
del mancato consenso russo, che non poté essere concesso a causa dello scoppio
della rivoluzione e del cambio di regime. Il Trattato di Sèvres del 1920
stabilì l’effettivo smembramento dell’Impero ottomano, ricalcando per molti
aspetti gli accordi segreti interalleati Sykes-Picot. Il sultano ottomano era
pronto a ratificarlo ma a questo punto il nazionalista turco Mustafa Kemal
dichiarò guerra alla Grecia, che pensava di approfittare della situazione per
accrescere i suoi domini ai danni della Turchia, sconfiggendola (1922). Kemal colse
l’occasione per scacciare le truppe d’occupazione italiane da Adalia. A guerra
conclusa, pertanto, il Trattato di Sèvres venne sostituito con il Trattato di
Losanna (1923), che prevedeva che la Turchia riottenesse dalla Russia il
controllo degli Stretti e i distretti armeni di Kars e Ardahan, che riottenesse
la Tracia orientale con Costantinopoli ed Adrianopoli (Edirne), che conservasse
il dominio su tutta l’Anatolia e che riacquistasse dalla Francia la Cilicia,
anche se i francesi mantenevano il Sangiaccato di Alessandretta. Fu così che
gli italiani non ottennero nessuna delle acquisizioni previste dagli accordi
Sykes-Picot e di San Giovanni di Moriana, continuando a conservare soltanto
Rodi ed il Dodecanneso, italiani dal 1912.
Un’altra questione che deluse l’Italia fu quella relativa all'Albania. L’Albania si era resa indipendente dall'Impero ottomano nel 1913 grazie
anche alla protezione dell’Italia e dell’Austria-Ungheria, che veniva offerta
per evitare un’espansione della Serbia nei Balcani e nell’Adriatico. Sin dal
Patto di Londra del 1915 l’Italia aveva richiesto il controllo di Valona (Vlorё),
preludio per l’esercizio di un protettorato sull’Albania al fine di poter
controllare il mare Adriatico attraverso il possesso di entrambi i lati d’accesso.
Nel 1919 vi era anche stato un progetto, mai realizzato, noto con il nome di
Accordo Tittoni-Venizelos, volto a spartire tra Italia e Grecia il territorio
albanese. In tal senso, la Conferenza di pace non comportò nessun beneficio per
l’Italia dal momento che l’Albania restò indipendente e l’Italia non ottenne il
controllo della città di Valona, dovendosi accontentare solamente del possesso
dell’isola di Saseno.
Terre irredente italiane nel 1914 |
In conclusione, la Conferenza di pace che pose fine alla
Grande Guerra e che regolamentò i nuovi confini d’Europa fu una vittoria a metà
per l’Italia. Se infatti, con l’eccezione della Dalmazia, la questione
irredentista poteva considerarsi conclusa e la preoccupazione della sicurezza
delle frontiere, in virtù dell’acquisizione dell’Alto Adige, risolta, le altre mancate
promesse franco-britanniche, le decisioni di Wilson nell'applicare arbitrariamente
il principio di autodeterminazione dei popoli, le disposizioni generali dei
trattati di Saint-Germain-en-Laye e di Losanna, la mancata compensazione
coloniale e l’esclusione dell’Italia dal sistema dei mandati fiduciari
societari sono prove sufficienti per domandarsi se l’Italia avesse fatto meglio
a mantenere la neutralità del 1914, lasciando che fossero gli altri popoli a
farsi massacrare in questa guerra sanguinaria, che risultò una vera, immane
carneficina.
Riferimenti bibliografici:
G. Mammarella, P. Cacace, La politica estera dell’Italia, Bari, Laterza, 2013.
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