Abbiamo già considerato in precedenti pubblicazioni le caratteristiche dell’uomo nello stato di natura e nello stato civile. Cercheremo di
capire ora quali siano i principali pregi
e difetti di ambedue gli stati. Mentre infatti l’uomo è verosimilmente sempre
uguale, e cioè portatore di eguali qualità o demeriti sia in natura che in
società, le due condizioni analizzate sono invece sicuramente diverse: o
meglio, esse presentano pure delle analogie, ma specialmente delle differenze: poiché, infatti, se l’uomo è sempre lo stesso, le
sue condizioni di vita possono mutare per cause che forse nemmeno lui si
accorge di aver prodotto.
Per
confrontare i due stati ci serviremo del pensiero politico di due capisaldi
della filosofia politica, pietre miliari della storia delle dottrine politiche,
le cui idee su questo argomento risultano essere pressappoco antitetiche: Hobbes e Rousseau, ossia di un celebre denigratore dello stato di natura e
di un suo altrettanto famoso apologeta.
Thomas Hobbes |
Esistono
qui, è vero, delle leggi naturali che possono essere carpite mediante la retta
ragione e che permettono di far sopravvivere l’uomo attraverso la cessazione
dello stato di guerra, ma è altrettanto vero che manca un potere
coercitivo che le renda certe ed esecutive.
Dipendendo,
quindi, la loro applicazione esclusivamente dalla buona volontà dei singoli, le
leggi di natura per ciò stesso non possono essere sufficienti a garantire la
pace, e questo proprio perché non garantiscono a nessuno alcuna sicurezza ad
osservarle.
Da
ciò deriva, di necessità, che lo stato di guerra permanente possa venire
interrotto solo istituendo lo Stato, cui viene data la luce attraverso un patto
sociale artificiale che necessità di una potestà comune che governi con il
timore della pena. La natura dello Stato così creato prevede la
totale sottomissione al potere sovrano - sia esso un uomo o un’assemblea -, a cui
i consociati alienano quei diritti naturali in eccesso che offrivano la facoltà
di nuocere ai propri simili. In questo modo lo Stato ne diveniva esclusivo
titolare e aveva facoltà di utilizzarli a vantaggio di tutti per la difesa
comune contro i nemici interni e, soprattutto, esterni. Lo Stato
costituito per patto deve avere le caratteristiche di uno Stato assoluto,
nel senso che il sovrano non deve in alcun modo condividere la sovranità con
altri, separando i tre poteri e costituendo un governo misto, né la stessa
autorità sovrana può essere soggetta a critiche o messa in discussione: se ciò
avvenisse, infatti, riemergerebbero, con le sedizioni, le congiure e le
faziosità, i germi dello stato di guerra, che condurrebbero gli individui alla
guerra civile e al ritorno all'anarchico e violento stato di natura.
Il
sovrano, pertanto, deve essere obbedito, anche se un suo ordine può apparire
secondo il giudizio privato dei cittadini, sbagliato o ingiusto; inoltre, lo
stesso sovrano, essendo assoluto, non è soggetto alle leggi che emana.
Da
quanto scritto emerge che il nucleo del pensiero politico hobbesiano consiste nell'obbedienza al potere costituito e ciò per evitare una volta per sempre lo
stato di guerra tra gli uomini. Hobbes considera lo Stato un male necessario:
esso è l’unico mezzo che l’uomo possiede per evitare le eccessive violenze e
miserie naturali, che finirebbero per sopraffarlo rapidamente. E’ vero che lo
Stato nasce dal timore reciproco, prodotto dalle caratteristiche stesse
dell’essere umano allo stato naturale, ma è pur vero che esso
rappresenta un male minore rispetto al bellum
omnium contra omnes: anzi, esso risulta proprio un male necessario,
un’alternativa meno amara. Queste conclusioni che trae il filosofo inglese non
sarebbero state possibile se avesse avuto una visione meno pessimistica sulla
natura in genere e sull'essere umano in particolare. Il brano che segue, tratto
dal De Cive costituisce una valida
sintesi dei pregi dello stato civile hobbesiano:
Fuori
dello stato civile, ciascuno ha una libertà del tutto completa, ma sterile,
poiché chi, per la sua libertà, fa tutte le cose a suo arbitrio, per la libertà
degli altri patisce tutte le cose, ad arbitrio altrui. Invece, una volta
costituito lo Stato, ciascuno dei cittadini conserva tanta libertà, quanto
basta per vivere bene e con tranquillità; e agli altri ne viene tolta tanta, da
non renderli più temibili. Fuori dello Stato ciascuno ha il diritto a tutte le
cose, ma nessuno gode con sicurezza di un diritto limitato. Fuori dello Stato,
chiunque può essere legittimamente spogliato e ucciso da chiunque altro. Nello
Stato, soltanto da uno. Fuori dello Stato, siamo protetti soltanto dalle nostre
forze. Nello Stato, dalle forze di tutti. Fuori dello Stato il frutto
dell’industria non è sicuro per nessuno; nello Stato, per tutti. Infine, fuori
dello Stato, è il potere delle passioni, la guerra, la paura, la miseria, la
bruttura, la solitudine, la barbarie, l’ ignoranza, la crudeltà; nello Stato,
il potere della ragione, la pace, la sicurezza, la ricchezza, lo splendore, la
società, la raffinatezza, la scienza, la benevolenza.
Non
c’e dubbio che se fosse questa la situazione in natura, è più che ragionevole
volerne uscirne.
E
tuttavia non si possono non scorgere,
nel pensiero politico di Hobbes, degli elementi che, a nostro modo di vedere, presentano
dei problematici difetti. Il più grande è dato dal fatto che lo Stato
hobbesiano è dotato di una potestà assoluta irresistibile, essendo appunto un
Leviatano, cioè un mostro. Esso è talmente indistruttibile e potente da essere
virtualmente in grado di schiacciare senza contrasti qualunque forza gli si
opponga, sia di natura interna che esterna. Quantunque esso sia stato istituito
attraverso un patto sociale espressione della volontà dei costituenti stessi,
esso resta dotato di un potere potenzialmente illimitato, che, tra le altre
cose, gli offrirebbe la facoltà di espropriare le proprietà dei sudditi,
di essere svincolato dalle sue stesse leggi, di accentrare i tre
poteri statuali nelle mani di un solo organo e che obbligherebbe
la volontà dei cittadini a coincidere perfettamente con la propria. E’, in una parola, uno Stato che esige una cieca obbedienza per
evitare il ritorno allo stato di guerra naturale. Forse non fu teorizzato mai
nulla di così vicino ad uno Stato totalitario tout-court.
Jean-Jacques Rousseau |
Per
quanto attiene Rousseau, invece, lo stato di natura è una condizione in cui
l’uomo non nuoce il proprio simile a meno che non sia per lo scopo di legittima
difesa, in cui è disuguale ad altri uomini solo per ragioni
fisiologiche e non politiche, in cui vive in maniera semplice,
uniforme e solitaria, ed in cui è mosso da innata pietà nel
soccorrere i suoi simili. Marcatamente esso si caratterizza, poi,
per l’assenza di proprietà privata, la quale nacque come
conseguenza della scoperta dell’agricoltura, che comportò la divisione dei
lotti di terra. Fu la società civile a dar vita allo stato di
guerra tra gli individui e ad essere all'origine di tutti i mali
dell’uomo. Fu con essa che sorse la disuguaglianza, che sarebbe
altrimenti ben minore in natura, come conseguenza della nascita
della proprietà privata e della divisione del lavoro. La
diffusione della proprietà privata e la distribuzione diseguale delle ricchezze
e dei patrimoni fecero addirittura sorgere all'interno della società civile la
schiavitù e l’oppressione dei popoli. Ed è perciò profondamente
ipocrita e malvagia questa società civile, laddove la condizione più
desiderabile sarebbe lo stato naturale, che si colloca a metà strada tra
l’indolenza originaria dell’uomo primitivo e la società civile coeva piena
d’amor proprio ed ingiustizia.
Nonostante
tutte queste amare critiche nei confronti dello stato civile, però, Rousseau
non è contrario all'idea di istituire uno Stato o una società politica. Al
contrario, egli sostiene che la disuguaglianza sociale possa essere evitata
proprio all'interno di uno Stato posto in essere dalla stipulazione di un contratto
sociale espressione della volontà generale della nazione. Dal momento che è la
collettività stessa a farlo proprio, lo scopo del contratto sarà quello di
fondare una società giusta, che si fondi sull'uguaglianza morale e politica, e
che, tra le disuguaglianze naturali, mantenga solo quella fisico-biologica. Siffatto
Stato sarà per forza di cose democratico: al suo interno, infatti, ogni
decisione popolare deve provenire da organi politici legittimi, ossia
legittimati dalla volontà sovrana dei consociati stessi, e per ciò stessi
giusti ed equi, in quanto nessuno avrebbe mai intenzione di costituire qualcosa
di nocivo per se stesso.
Da
ciò si evince che, volendo accettare l’idea rousseauiana che dentro lo stato
civile siano presenti le cause principali della disuguaglianza e della
schiavitù, appare senz'altro preferibile lo stato naturale di libertà ed autosufficienza. Ma ecco che se pure esso possa apparire pregevole, non è
sempre detto che il pensiero democratico sia esente da difetti. Uno dei difetti
principali del ragionamento di Rousseau è, invero, proprio la tipologia di
Stato che intende creare attraverso il contratto sociale. Paradossalmente esso
non è altro che un’altra specie di Leviatano. Volendo, infatti, costituire uno
Stato democratico che è espressione della volontà generale dei consociati e che
deve far dipendere ogni suo atto legittimo dalla medesima equivale, in un certo
senso, a riproporre, similmente a quanto fatto da Hobbes, un altro modello di
Stato totalitario in cui la volontà della maggioranza soverchia e annulla
quella della minoranza. Un simile “Leviatano dei cittadini”, se portato alle
estreme conseguenze, conduce direttamente all'idea di “tirannide della
maggioranza” di cui parlava Tocqueville.
Per
riassumere, i pregi dello stato civile hobbesiano consistono nel far cessare lo
strato di guerra perenne, mentre i difetti di quello di Rousseau nella
condizione di disuguaglianza ed ingiustizia che al suo interno si vengono a
manifestare; viceversa, i difetti dello stato naturale di Hobbes sono
caratterizzati dai suoi tratti tipicamente anarchici, caotici e violenti,
mentre i pregi di quello rousseauiano si concentrano nell'idea che la
condizione umana sia prossima all'uguaglianza, alla spontaneità e alla pietà
verso i consimili. Al contrario, i difetti dello stato civile hobbesiano
consistono nella creazione di un potere assoluto e totalitario cui si deve
stretta obbedienza, mentre i pregi di quello di Rousseau prevedono che esso
possa annullare la disuguaglianza politica nel momento in cui il contratto
istitutivo è espressione della volontà generale dei costituenti; viceversa i
difetti dello stato di natura di Rousseau fanno sì che non esista una potestà
comune per rendere certe le condizioni umane in esso, mentre i suoi pregi nel
pensiero politico hobbesiano sono, in verità, del tutto assenti.
Riferimenti bibliografici:
A. de Tocqueville, La Democrazia
in America, Torino, UTET, 2007.
T. Hobbes, Leviatano, Bari,
Laterza, 2010.
T. Hobbes, De Cive, Roma,
Editori Riuniti, 2005.
J. J. Rousseau, Origine della Disuguaglianza,
Milano, Feltrinelli, 2008.
J. J. Rousseau, Il Contratto
Sociale, Bari, Laterza, 2006.
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