Chi
decidesse di sfogliare le pagine di un atlante geografico – politico noterebbe
che, eccezion fatta per l’Antartide, comunque praticamente disabitata, al
giorno d’oggi tutte le porzioni di terra emersa sono suddivise in Stati
sovrani, o al massimo in entità politiche dalla sovranità limitata a causa del
loro status incerto o ancora da
definire, come i territori contesi tra più Stati o i territori in cui risultano
accentuate le forze centrifughe di matrice secessionista o indipendentista
dovute alle più varie ragioni politiche, sociali ed economiche. Lo stesso
concetto di frontiera, ossia di confine politico non del tutto definito, ancora
presente in alcune aree geografiche fino agli inizi del 1900, è
oggi del tutto scomparso almeno sulla carta. Pertanto, le pagine del nostro
atlante ci mostrerebbero con chiarezza che la forma di società politica
statuale superiorem non recognoscens si è diffusa e
consolidata su tutta la Terra, inglobando a sé foreste, deserti, ghiacciai e
catene montuose.
Ma
allora, stando così le cose, dove è possibile ricercare lo stato di natura?
Come si può descrivere qualcosa che tuttora non esiste, e che forse non è mai
esistito? In altre parole, a cosa si riferivano i grandi filosofi politici del
passato quando parlavano del cosiddetto stato di natura?
Innanzitutto,
è opportuno ribadire che, in linea di principio, lo stato di natura è o
effettivamente estinto o meramente immaginario, ed è così che veniva
generalmente inteso. Afferma infatti Rousseau nelle prime pagine dell’Origine della disuguaglianza:
Jean Jacques Rousseau |
[…] non è impresa da poco quella di
sceverare ciò che vi è di originario da ciò che vi è di artificiale nella
natura attuale dell’uomo, e di conoscere bene uno stato che non esiste più, che
forse non è affatto esistito e probabilmente non esisterà mai, e sul quale
tuttavia è necessario avere delle idee giuste per giudicare bene intorno al
nostro stato presente.
Da
quanto appena affermato dal filosofo ginevrino risulterebbe chiaro che lo stato
di natura è da considerarsi come una condizione ipotetica. E ciò appare tanto
più significativo date le possibilità dell’epoca in cui egli scrive di poter
considerare uomini allo stato naturale gli indigeni delle terre di recente e
recentissima scoperta: evidentemente Rousseau considera quelle stesse società
indigene (americane, africane, oceaniche) come società già fuoriuscite dallo
stato di natura, anche se probabilmente ben più vicine ad esso che non le
cosiddette società civili coeve, contro cui sovente scaglia le sue critiche.
Ma
questa è solo la visione di Rousseau. Vi sono altri filosofi che considerano lo
stato di natura come qualcosa di reale e, soprattutto, attuale. Basti pensare a
Hobbes, il quale, un secolo prima di Rousseau, aveva voluto dimostrare che lo
stato di natura, ben lungi dall’essere un’ipotesi, è una condizione di anarchia
che continua a restare sempre latente all’interno degli Stati, come una sorta
di virus in incubazione. Essa si trasforma in una realtà concreta allo
scoppiare di una guerra civile, come era avvenuto in Inghilterra ai tempi della
Rivoluzione inglese (1640-1649), che venne vissuta in prima persona dal
filosofo. Secondo Hobbes, l’anarchia tipica dell’uomo naturale, non vincolato
da leggi esterne e da un potere coercitivo ad esso superiore capace di farle
eseguire, era stata fatta risorgere in Inghilterra dal conflitto costituzionale
e militare deflagrato tra re Carlo I ed Oliver Cromwell, ossia tra Corona e
Parlamento. In questo senso, si può dunque affermare che il concetto di stato
di natura hobbesiano poggi su basi più empiriche di quello di Rousseau, che è
invece il parto di una deduzione teorico-aprioristica.
E’
opportuno, a questo punto, considerare più da vicino le autorevoli definizioni
che vennero date allo stato di natura. Esse possono essere classificate in tre
diverse categorie a seconda del grado di negatività che le caratterizzano,
dalla descrizione più marcatamente ostile a quella più benevola:
1) Per
Bodin “la società di natura […] fu caratterizzata da una vita umana
sostanzialmente ferina […], caratterizzata dalla violenza, dalla sopraffazione,
dalle continue lotte […], dominio degli istinti e delle passioni.”
Thomas Hobbes |
Similmente, Hobbes
afferma che “la condizione degli uomini fuori della società civile (condizione
che si può ben chiamare stato di natura), non è altro che una guerra di tutti
contro tutti, e che in tale guerra tutti hanno diritto a tutte le cose. Quindi,
che tutti gli uomini, per necessità della loro natura, vogliono uscire da
questo stato miserabile e odioso, non appena ne comprendono la miseria.”
Anche Spinoza sostiene
che “[in natura] gli uomini, governati dal solo istinto di autoconservazione,
vivono in uno stato di guerra continua, di assoluta insicurezza e di miseria,
in balìa unicamente della sorte, senza alcuna possibilità di poter garantire il
proprio futuro.”
Infine anche Kant non
cela che lo stato naturale sia caratterizzato da una guerra permanente di tutti
contro tutti, e che come tale sia uno stato da cui l’uomo deve uscire.
2) Visione
più moderata è quella di Locke, il quale sostiene che lo stato di natura “sia
lo stato in cui tutti gli uomini si trovano naturalmente, vale a dire uno stato
di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e di disporre dei propri beni
e persone come meglio crede, entro i limiti della legge di natura, senza
chiedere permesso o dipendere dalla volontà di un altro. E’ anche uno stato di
eguaglianza, in cui ogni potere e autorità sono reciproci, non avendone nessuno
più di un altro.” E prosegue poco dopo: “Ma sebbene sia uno stato di
libertà, tuttavia non è uno stato di licenza. Sebbene in questo stato l’uomo
abbia una libertà incondizionata di disporre della sua persona e dei suoi
averi, tuttavia non ha la libertà di distruggere se stesso così come ogni altra
creatura in suo possesso, tranne nel caso in cui lo richieda un qualche motivo
più nobile che la semplice conservazione.”
3) Decisamente
positiva è la visione che ne offre Rousseau. Egli, più che darci una
definizione di stato di natura, ci descrive l’uomo in quello stato: “Nello
stato di natura l’uomo è libero ed eguale; le disuguaglianze che possono
riscontrarsi dal punto di vista fisico non incidono sui rapporti fra gli
uomini: l’uomo, guidato dall’istinto e sollecitato dai limitati bisogni
naturali, conduce una vita semplice e tranquilla”. Nulla di più
lontano rispetto alla visione hobbesiana considerata al punto primo.
Date
queste premesse, in ultima analisi, è possibile definire lo stato di natura
come la condizione ontologica in cui
soggiaceva l’essere umano prima che decidesse, per ragioni utilitaristiche, per
imposizione esterna o per impulso innato, di riunirsi in società politica, alienando ad un potere superiore alcune
delle proprie libertà naturali in cambio della garanzia coattiva delle altre.
Riferimenti bibliografici:
J. J. Rousseau, Origine della Disuguaglianza,
Milano, Feltrinelli, 2008.
M. d’Addio, Storia delle Dottrine
Politiche, Genova, ECIG, 2002.
T. Hobbes, De Cive, Roma,
Editori Riuniti, 2005.
I. Kant, Per la Pace Perpetua,
Roma, Editori Riuniti, 2005.
J. Locke, Il Secondo Trattato sul
Governo, Milano, BUR, 2007.
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