sabato 28 febbraio 2015

L'evoluzione delle forme di Stato in Europa



Prima della nascita dello Stato moderno, nell'antichità, il modello di entità politica più diffuso era senz'altro la monarchia: erano sorretti da monarchi gli Egizi, gli Ebrei (si badi però che solo dal tempo di re Saul, prima erano infatti una teocrazia), gli Assiri, i Babilonesi e, dopo di loro, i Persiani. Perfino i Greci dell’età micenea erano costituiti in vari regni sorretti da un βασιλεύς, ossia un re. Fu solo in età classica, nel corso nel I millennio a.C., che i cittadini iniziarono in maniera organica a sviluppare le istituzioni politiche democratiche, divenendo elettori ed eleggibili nelle assemblee elettive delle loro πóλεις. Nonostante lo sviluppo anche a Sparta di assemblee democratiche, lo Stato lacedemone continuò però a mantenere la forma di governo diarchica (con due re). Anche Roma, in fin dei conti, nacque monarchia. Solo nel 509 a.C. si trasformò in una Repubblica aristocratica. La costituzione repubblicana di Roma rappresenta un modello esemplare ed originale nella storia delle istituzioni politiche, essendo, come sottolineato da Polibio, un misto tra le tre forme di governo principali. Con la fondazione dell’Impero, nel 27 a.C., la forma monarchica sembrò restaurarsi, sebbene un’analisi più approfondita faccia subito notare come il princeps, l’imperatore, fosse una sorta di primus inter pares rispetto ai senatori e che il Senato godeva ancora di notevole influenza negli affari politici. Soltanto dal III secolo d.C. in poi l’Impero romano andò ad assumere caratteristiche dispotiche, non a caso conseguenti alle infiltrazioni culturali orientali, e il potere politico tese allora a concentrarsi unicamente nelle mani dell’imperatore. I primi Stati romano-germanici che sorsero nei vecchi territori al crollo della sua parte occidentale (476 d.C.) erano dei regni in cui anche qui il re veniva considerato dagli altri arimanni (gli uomini liberi, ossia atti a portare le armi) un primus inter pares. La società germanica che si andò a sovrapporre a quella romana era essenzialmente una società di liberi guerrieri divisa in tribù e stirpi (Sippe). I Germani erano soliti contrarre dei patti di sangue istitutivi delle cosiddette Männerbunde, ossia delle forme di associazioni umane da cui, con buona probabilità, si può rintracciare l’origine del vincolo vassallatico feudale. 

Si potrebbe affermare che dalla fondazione dell’Impero carolingio (800 d.C.) ad oggi si sono succedute in Europa cinque forme di Stato principali:
L'omaggio e l'investitura feudali

1)      Stato feudale = E’ un modello di Stato fortemente decentrato, in cui molte prerogative sovrane sono affidate dal principe o dal signore ai propri vassalli. Storicamente compare in Europa con il consolidamento ed espansione dell’Impero carolingio e comincerà a declinare solo al principio dell’età moderna, venendo sostituito dallo Stato assoluto. Lo Stato feudale andò a costituirsi attraverso dei giuramenti solenni costitutivi di un rapporto sinallagmatico secondo cui il sovrano conferiva un beneficio per lo più fondiario (il feudo) ad un vassallo e questi, in cambio, gli offriva la sua lealtà, l’aiuto militare e altre prestazioni di varia natura. Fu proprio dal IX secolo d.C. che si consolidò l’uso di rafforzare il patto vassallatico con il conferimento del feudo, ma dal momento che il giuramento era personale anche il feudo assegnato era considerato un bene dato al vassallo solo per la durata del suo servizio: se il vassallo moriva o terminava il giuramento il feudo tornava al signore concedente. Il contratto vassallatico era inizialmente orale, né prevedeva registrazione scritta: ci si accomandava in vassallaggio mettendo le proprie mani in quelle del signore o principe, toccando le reliquie dei santi come garanzia. L’elemento costitutivo del vassallaggio era l’accomandazione (commendatio), con cui un uomo libero in genere di basso ceto si sottometteva alla protezione di un altro uomo libero, a cui prometteva il proprio servizio e il proprio ossequio, divenendone cliente. In cambio dei suoi servigi clientelari richiedeva uno stipendio, che era costituito dal conferimento di un beneficium, ossia di un feudo. I vassalli cui veniva concesso il feudo, ossia i feudatari, godevano spesso di piena potestà giurisdizionale su di esso e, salvo i vincoli previsti dal rapporto vassallatico, proprietà piena sui beni (era davvero assoluta sono nell’allodio, cioè nella sua porzione di beni fondiari non infeudati, quindi non sottoposti a vincoli) e sulle persone che all’interno di esso dimoravano, cosicché alcuni hanno voluto anche chiamare questa forma  statuale Stato patrimoniale. In qualche occasione i feudatari avevano anche la facoltà di coniare moneta. Erano poi dotati di propri eserciti privati e godevano di una serie di immunità e diritti particolari, quali la possibilità di imporre imposte, pedaggi, taglie e gabelle. Anche all’interno del feudo, che appariva come un’impresa agricola votata allo scopo di garantire un’economia di sussistenza, si creava una situazione in cui il feudatario offriva protezione e concedeva in usufrutto o enfiteusi una parte delle terre del feudo agli abitanti dello stesso, e questi, in cambio, offrivano delle prestazioni lavorative (corveés), pecuniarie, militari o di altra natura. A livello di erario, non vi era nello Stato feudale una marcata differenza tra tesoro pubblico e tesoro privato del principe. I vari ceti sociali che lo componevano, poi, erano rappresentati in assemblee cetuali (delle sorte di Parlamenti ante litteram), quali gli Stati Generali, le Cortes, le Diete, ecc. Saranno proprio queste assemblee rappresentative, congiuntamente alle corti di giustizia, a limitare il potere del sovrano nel corso del Medioevo. L’ereditarietà dei feudi, la sub-infeudazione,  l’eccessiva parcellizzazione geografico-politica e l’immensa devoluzione di potere dal centro alla periferia comportarono il tramonto di questo tipo di Stato. Le sue caratteristiche forze centrifughe lo dissolsero e sgretolarono, per così dire, dall'interno.

2)      Stato assoluto = Esso comincia a fare la sua comparsa in Europa tra ‘500 e ‘600. Sua caratteristica principale è l’accentramento politico di tutto il potere nelle mani del sovrano. Il sovrano, infatti, non si sente più vincolato a nessun rapporto di subordinazione nei confronti dell’Imperatore del Sacro Romano Impero secondo il brocardo rex in regno suo imperator est, superiorem non recognoscens, né è più frenato nel’esercizio del suo potere dalle assemblee cetuali e dalle corti supreme di giustizia. La stessa legge, secondo il principio del rex legibus solutus, non vincolerà più la sua persona, essendone una manifestazione successiva. Cominceranno a fare la loro comparsa gli eserciti professionali permanenti, che sostituiranno la precedente soldatesca mercenaria. Diventerà più netta la separazione tra erario pubblico e fondi privati del sovrano, si introdurrà un sistema tributario organico, si supererà la frammentazione feudale con la sottomissione completa dell’aristocrazia terriera alla Corona, considerando ormai certa l’idea che il Re non sarà più un primus inter pares rispetto al resto dell’antica nobiltà di spada. Lo Stato, inoltre, inizierà ad assumere una fisionomia più certa: il sistema burocratico-amministrativo si svilupperà notevolmente, spesso con la nascita di nuove ripartizioni e suddivisioni amministrative del territorio nazionale. Diventerà poi sempre più netta la separazione tra potere spirituale e temporale e si tenderà a contrastare ogni forma di particolarismo locale. In conclusione, però, l’elemento determinante di questo tipo di Stato è sicuramente la concentrazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario nelle esclusive mani del sovrano; in questo senso si può senz’altro affermare che il precedente Stato feudale era più controbilanciato del suo immediato successore. Tanto accentrato era il potere nelle mani del sovrano che Luigi XIV finirà per dire che lo Stato era lui.
Giuseppe II d'Asburgo

3)      Stato di polizia = E’ una forma di Stato che viene fatta comunemente coincidere con il regno dei cosiddetti despoti illuminati, e pertanto è caratteristica del XVIII secolo. Tra questi ricordiamo Federico II di Prussia, Caterina II di Russia, Carlo III di Spagna (già Duca di Parma e Piacenza e poi Re di Napoli e Sicilia), Maria Teresa I d’Austria e i suoi figli, e poi imperatori del Sacro Romano Impero, Giuseppe II e Leopoldo II (già Granduca di Toscana). Questi sovrani, molto spesso anche filosofi e pensatori, vorranno migliorare le condizioni di vita dei propri sudditi. In questo senso si incoraggeranno la costruzione di scuole pubbliche e strutture sanitarie, si attueranno grandi riforme amministrative, si emaneranno codici normativi organici, si introdurranno elementi razionali per imporre la tassazione quali il catasto, si bonificheranno aree malsane, si contrasteranno le manomorte e gli altri eventuali sprechi ecclesiastici, si garantiranno la tolleranza religiosa e la libertà di coscienza e si incoraggeranno le arti e la cultura. Probabilmente la frase pronunciata da Federico il Grande nel suo Antimachiavelli riassume in maniera efficace quale fosse lo spirito che animava i sovrani dello Stato di polizia: “Il Re è il primo servitore dello Stato”.
La presa della Bastiglia, 14 luglio 1789

4)      Stato liberale =  Esso affonda le sue radici culturali nell'Illuminismo e quelle storiche nelle due Rivoluzioni inglesi del Seicento, nella Rivoluzione americana, e, soprattutto, nella Rivoluzione francese. Uno dei principi politici fondamentali che ne è alla base è la classica tripartizione dei poteri statuali attuata da Montesquieu in Esecutivo, Legislativo e Giudiziario. Secondo questo principio, nel momento in cui l’ assemblea sovrana o lo stesso individuo sovrano non avessero concentrato in sé tutte le funzioni statuali, per ciò stesso si sarebbero create delle forze politiche “d’opposizione” che lo avrebbero controbilanciato. Il sistema liberale di pesi e contrappesi e di controllo reciproco dei poteri preverrebbe efficacemente il rischio di autocrazie. Basti pensare, infatti, che Napoleone Bonaparte divenne un autocrate proprio nel 1799 con la Costituzione istitutiva del Consolato: in un modo o nell'altro, infatti, i tre poteri andarono a dipendere tutti dal Primo Console, che era lo stesso grande generale corso. Altro elemento caratteristico dello Stato liberale è l’istituzione politica del Parlamento. Il Parlamento, infatti, oltre ad essere il principale titolare dell'emanazione legislativa, riveste il fondamentale ruolo di controbilanciare il potere del Governo sulla base del rapporto fiduciario. Governo che, nello Stato liberale, non è più in genere espressione del Capo di Stato, il quale diviene una figura di secondo piano (eccezion fatta per le repubbliche presidenziali), ma di un Primo Ministro di sua nomina, che risulta doppiamente responsabile nei confronti sia del Re che del Parlamento. Lo Stato costituzionale si evolse in Stato parlamentare proprio nel momento in cui il Governo divenne politicamente responsabile della propria condotta nei confronti del Parlamento. Inoltre, per quanto attiene la forma di governo, non è più necessario che il Capo di Stato sia un Re: non fu raro, infatti, che molti Stati liberali decisero di adottare la forma di governo repubblicana, primi fra tutti gli Stati Uniti d’America. La stessa forma di governo repubblicana, poi, potrà assumere varie tipologie: quella parlamentare, quella presidenziale, quella semi-presidenziale, quella direttoriale. Fu poi grazie allo Stato liberale che si diffuse l’idea di Costituzione, ossia di un atto fondamentale che disciplina i rapporti tra Stati e cittadini e tra organi dello Stato: tra il 1787 e il 1848 si diffonderanno costituzioni più o meno liberali in moltissimi Stati europei e americani. Altro elemento caratteristico fu anch'esso teorizzato da Montesquieu, e cioè che l’organo giudicante una controversia doveva essere soltanto la “bocca della legge”, doveva cioè applicare il diritto statuale senza considerazioni personali e in nome e per conto della legge, ossia dello Stato. Altre conquiste dello Stato liberale saranno, infine, il superamento delle lacune giuridiche, l’uguaglianza davanti alla legge, il concetto di “cittadino” e lo Stato di diritto.

5)      Stato sociale = Nello Stato sociale (o Welfare State) il Governo e i policymaker si impegnano attraverso un intervento diretto ad eliminare o almeno contenere qualunque forma di disuguaglianza od ingiustizia di natura sociale ed economica. E’ una forma di Stato che si sorregge inscindibilmente su una forma di governo democratica e tollerante, in cui sono presenti il multipartitismo, il suffragio universale, la parificazione dei sessi, un sofisticato sistema previdenziale di sussidi, stipendi e pensioni, dei sindacati rappresentativi delle classi lavoratrici, la certezza del diritto, la libera espressione di pensiero e di stampa. Qui vengono tutelate e salvaguardate dalle Costituzioni statuali stesse le libertà fondamentali degli individui, che i Paesi più evoluti del mondo contemporaneo riconoscono unanimemente come tali. E’, insomma, una forma di Stato in cui i diritti civili, politici e sociali sono garantiti per volontà dello Stato medesimo. La sua comparsa storica può datarsi a partire dal secondo dopoguerra, con significative eccezioni, però, di Paesi quali la Gran Bretagna, che, per molti aspetti, era uno Stato sociale già all'inizio del secolo scorso.   


Riferimenti bibliografici :

G. Poma, Le istituzioni politiche della Grecia in età classica, Bologna, Il Mulino, 2003.

G. Poma, Le istituzioni politiche del mondo romano, Bologna, Il Mulino, 2002.

M. S. Corciulo, Percorsi di Storia istituzionale europea, secoli XIII-XIX, Roma, La Sapienza, 2008.

J. H. Shennan, Le origini dello Stato moderno in Europa (1450-1725), Bologna, Il Mulino, 1974.








venerdì 27 febbraio 2015

Maritime piracy and pirates: how does international law contrast them?






Piracy has become increasingly common over the past years, and the main origin of this phenomenon is due to failed States or States that somehow are about to fail: just think of Somalia and of piracy in the waters of the Horn of Africa. The main sources governing the issue of piracy in international law are the general customary international laws and the treaty laws. The main treaty law enacted in the past years for this purpose is the United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS), also known as Montego Bay Convention. This international agreement resulted from the third United Nations Conference on the Law of the Sea, which took place between 1973 and 1982, and that came into force in 1994. Though being widely reproductive of customary law, the UNCLOS also replaces the four Geneva Conventions on international maritime law of 1958. As of January 2015, 166 countries and the European Union have joined in the Convention, thus making it the main juridical codified tool for international maritime law.
The UNCLOS contemplates the issue of piracy under the Articles 100-110. The Convention reiterates that all warships, of all States, can fight maritime piracy in order to keep safe and free the high seas; this means that only governmental ships can accost and vanquish pirate ships, but not private ones. According to Art 100 of the UNCLOS, all world States must cooperate to suppress piracy in the high seas. Art 101 defines what is meant by piracy: an act of violence, kidnapping, or robbery committed for private purposes, never for political purposes, by a ship against another in the high seas. Thence, it is relevant to highlight that mutiny does not represent an act of piracy, because the latter requires at least two ships involved in the matter. Art 103 describes the features of a pirate ship: it is a ship under the rule of pirates, used for their villain purposes; accordingly, it can be seized and its crew arrested. Art 105 states to seize all assets of the pirates. However, Art 106 continues affirming that States must pay for all caused damages while seizing in case of mistaken ship identity or operational misunderstandings. Once again, Art 107 upholds that only warships or fighting aircrafts can attack and confiscate a pirate ship.
The IMO headquarters in London
Piracy is to be considered different from other international phenomena. It is different from terrorism because, unlike it, piracy never originates for political purposes. Moreover, it differs from the case of insurgents and national liberation movements because Third States must refrain from attacking their ships (only the legitimate State from which insurgents are struggling for secession or independence can militarily contrast their fleet), whereas all States can attack and seize a pirate ship. Finally, it also differs from the case of weapon smugglers.
Indeed all States agree to unite against piracy, cooperating both militarily and judicially.
In 2009, the International Maritime Organization (IMO), a specialized agency of the United Nations with 171 Member States and 3 Associate Members, adopted the so-called “Djibouti Code of Conduct” in order to contrast piracy following the principles of sharing information, intercepting distrustful vessels, insuring judicial trial for pirates, and shielding assailed vessels.
The logo of the EU NAVFOR, or "Operation Atalanta"
      

An example of international coordination for contrasting piracy is the EU NAVFOR. In fact, in 2008, the European Union decided to begin a naval military operation in the Horn of Africa to struggle against piracy. This operation, known as “Operation Atalanta”, or as European Union Naval Force Somalia (EU NAVFOR-ATALANTA), was started for the fulfillment of several UN Security Council’s Resolutions, including n. 1816 of 2008. The military operation undertaken by the European Union Naval Force is still taking place, fostering on patrolling the Gulf of Aden, a strategic crossroad for world maritime trade communications. The mission launched with a focus on protecting Somalia-bound merchant vessels and shipments belonging to several international organizations like the World Food Programme, as well as select other vulnerable shipments willing to bring food aid in Somalia. In addition, Operation Atalanta has been monitoring fishing activity on the regional seaboard. In 2012, the scope of the mission expanded to include Somali coastal territories and internal waters so as to co-ordinate counter-piracy operations with Somalia's Transitional Federal Government (TFG) and regional administrations. Operation Atalanta is part of a larger global action to prevent and combat acts of piracy in the Red Sea and the Indian Ocean. Indeed, it cooperates with the multinational Combined Task Force 151 of the US-led Combined Maritime Forces (CMF) and NATO's anti-terrorism Operation Ocean Shield.  


References:

A. Cassese, International Law, USA, Oxford University Press, 2001.



giovedì 26 febbraio 2015

Gli elementi costitutivi fondamentali dello Stato



Gli Stati sovrani del mondo, come è noto, non sono gli unici soggetti di diritto internazionale. Il diritto internazionale contemporaneo, infatti, attribuisce anche ad altre entità organizzative uno status specifico, che in alcuni casi garantisce loro perfino il treaty-making power, ossia il potere di concludere trattati internazionali vincolanti (tra i soggetti di diritto internazionale di natura non statuale possiamo ricordare le organizzazioni internazionali e soggetti particolari quali la Santa Sede, il Sovrano Ordine di Malta, la Croce Rossa Internazionale, ecc). E tuttavia, qualunque altra entità ed istituzione politica internazionalmente riconosciuta si differenzia al suo interno dallo Stato, essendo priva di almeno uno dei suoi elementi costitutivi.
Ma quali sono, dunque, gli elementi costitutivi dello Stato? E’ generalmente accolta l’idea che essi siano almeno i tre seguenti:

1) La popolazione.

2) Il territorio. 

3) La sovranità.

Riguardo al primo punto, non si potrebbe davvero concepire uno Stato che fosse privo di popolazione. Sono infatti i cittadini a costituirne le fondamenta e lo spirito stessi. Spetta ai cittadini di formare il governo del Paese, di rivestire le cariche pubbliche, di rappresentare il proprio Stato all'estero, di infoltire i ranghi delle forze armate, di applicarne il diritto e, nel caso delle democrazie, di eleggere i propri rappresentanti. Quindi uno Stato senza popolazione è altrettanto inconcepibile di un pesce senza branchie: esso non potrebbe sopravvivere.
Né è ipotizzabile uno Stato privo di territorio, ossia uno Stato che non si estenda, almeno per una piccola quota, su una porzione geografica di terra emersa. Tutti gli Stati del mondo, in ogni tempo e luogo, si sono diffusi, ad eccezione delle proprie acque territoriali, sulla terraferma e non in alto mare, cioè nella porzione del globo in cui la sopravvivenza risulta possibile.
Rousseau approfondì lo studio del rapporto tra Stato e territorio e tra territorio e popolazione, giungendo alle seguenti conclusioni:

Come la natura ha posto alla statura degli uomini ben conformati dei termini oltre i quali produce solo giganti o nani, così, quanto alla migliore costituzione di uno Stato, ci sono dei limiti all'estensione che esso può avere, perché non sia né troppo grande per poter essere ben governato, né troppo piccolo per potersi conservare da sé. Per ogni corpo politico esiste un maximum di forza che non va oltrepassato, e da cui spesso si allontana a furia di ingrandirsi. Più il legame sociale si estende più si allenta, e, in generale, uno Stato piccolo è, in proporzione, più forte di uno grande.

Inoltre, egli sottolineò pure come l’esistenza geografica di uno Stato dovesse coincidere con il numero della popolazione abitante:

Si può misurare un corpo politico in due modi: dall'estensione del territorio e dalla consistenza numerica della popolazione; tra l’una e l’altra misura vi è un rapporto conveniente per dare allo Stato la sua vera grandezza. Sono gli uomini che fanno lo Stato ed è la terra che nutre gli uomini; il rapporto conveniente, pertanto, si ha quando la terra basta a nutrire gli abitanti e gli abitanti sono tanti quanti la terra ne può nutrire. In questa proporzione risiede il maximum di forza di un certo numero di abitanti; infatti, se c’è un eccesso di terra la difesa è gravosa, insufficienti le culture, sovrabbondante il prodotto; si ha la causa prossima delle guerre difensive; mentre, se la terra non basta, lo Stato si trova a dipendere dai vicini per supplire alla scarsezza dei prodotti e si ha la causa prossima della guerra d’offesa […].

Il terzo elemento fondamentale senza cui lo Stato non può sussistere è la sovranità.
Essa, per darne una brillante definizione di Bodin,

è il vero fondamento, il perno su cui poggia l’assetto dello Stato, da cui dipendono tutti i magistrati [ossia le cariche pubbliche], le leggi, le ordinanze [i decreti governativi]; è la sola unione e il legame di famiglie, corpi, collegi e di tutti i privati in un corpo perfetto, lo Stato.

E poco dopo prosegue dicendo che “la sovranità è il potere assoluto e perpetuo dello Stato.”

Come si può vedere, quindi, la sovranità offrirebbe al suo detentore delle prerogative pubbliche fondamentali, tra cui quella di legiferare. Per Bodin, tra l’altro, il titolare del potere sovrano (in questo caso il monarca assoluto) non sarebbe vincolato dalle leggi da lui emanate, essendo espressione della sua volontà, e dunque ad esso conseguenti: è il celebre principio del rex legibus solutus est che caratterizzava marcatamente le monarchie assolute.
Anche Rousseau ci offre un’ originale definizione di sovranità:

Come la natura dà a ciascun uomo un potere assoluto su tutte le sue membra, il patto sociale dà al corpo politico un potere assoluto su tutte le sue, ed è questo medesimo potere che, diretto dalla volontà generale, porta, come ho detto, il nome di sovranità.

Secondo il filosofo ginevrino una delle caratteristiche peculiari della sovranità sarebbe la sua inalienabilità:

Dico dunque che la sovranità, non essendo che l’esercizio della volontà generale, non può mai alienarsi, e che il sovrano, essendo solo un ente collettivo, non può essere rappresentato che da se stesso; il potere può, sì, essere trasmesso, ma non la volontà.

Altra caratteristica che la contraddistinguerebbe è la sua indivisibilità:

La sovranità, per la stessa ragione per cui è inalienabile, è anche indivisibile. Infatti la volontà o è generale o non lo è; è la volontà del corpo popolare o solo di una parte. Nel primo caso questa volontà dichiarata è un atto sovrano e fa legge; nel secondo è solo una volontà particolare, o un atto di magistrature; tutt'al più un decreto.

In ultima analisi, ciò che emerge è che la sovranità consiste nella facoltà di chi la detiene di poter autodeterminare le proprie sorti politiche senza l’ingerenza o il freno di poteri superiori, pari o inferiori. Certo, storicamente si hanno avuti esempi di Stati dalla sovranità limitata sia per ragioni politiche - si pensi ai casi di vassallaggio, reggenza, temporanea fusione dinastica, condominio con Paesi terzi, governi in esilio, sottoposizione a tributo, dominio coloniale, ecc. - sia per ragioni economiche - come nei casi di dipendenza economico-commerciale con l’estero, insufficienza di risorse naturali, vincoli provenienti da unioni doganali, mercati comuni o unioni economiche, ecc. -, tuttavia, almeno teoricamente il concetto non cambia: a parità di condizioni, la sovranità garantisce ad uno Stato il libero ed assoluto esercizio del potere di autodeterminazione senza l’intervento di ingerenze esterne, pur nel rispetto del diritto internazionale e delle convenzioni e consuetudini generalmente accolte nel mondo.

In conclusione, non pretendiamo di aver riportato tutti gli elementi caratteristici di uno Stato; probabilmente, infatti, essi sono più di tre. In ogni caso, però, se la loro lista sarebbe potuto essere più ricca, sicuramente non avrebbe potuto non ricomprendere quelli contemplati in questa sede. Senza di loro, o perdendone anche solo uno, lo Stato virtualmente si estinguerebbe. 


Riferimenti bibliografici:

J. J. Rousseau, Il Contratto Sociale, Bari, Laterza, 2006.

L. Gambino, Brani di Classici del Pensiero Politico, Torino, Giappichelli, 2002.


mercoledì 25 febbraio 2015

Il diritto positivo: il bilico tra ragione e follia





Abbiamo già visto in precedenti articoli come, almeno in teoria, la disciplina dei rapporti inter-umani allo stato naturale non siano affidati in maniera totale al caso. Esisterebbero infatti delle norme naturali tacite che gli uomini savi sarebbero capaci di intuire ed interiorizzare in maniera pressoché automatica e che consentirebbero loro di vivere insieme in condizioni ragionevoli. Le consuetudini di ogni popolazione del mondo hanno attinto, in tutte le epoche, le peculiarità delle loro disposizioni dalle norme naturali, e nella quasi totalità dei casi si sono diffuse e consolidate grazie ad una parvenza di legittimazione di origine divina che le rivestiva.  
San Tommaso d'Aquino
Sarà opportuno, ora, considerare come il superamento, reale o ipotetico, dello stato naturale abbia comportato la nascita di società civili che non necessariamente fondavano la loro legislazione su dettami naturali. Si è già visto, infatti, come alcuni giusnaturalisti - specialmente cristiani – insistessero affinché il diritto positivo, ossia il diritto statuale particolaristico, trovasse fondamento e giustificazione nelle disposizioni del diritto naturale, ossia, a loro modo di vedere, nel diritto divino. Alcuni di essi, come S. Tommaso, arrivarono perfino a considerare la liceità del tirannicidio nei confronti di un sovrano che, legiferando, avesse abbandonato il lume naturale delle norme divine.
E, tuttavia, vi sono stati storicamente degli esempi di legislazione positiva decisamente in contrasto con le leggi naturali. Valga per tutti, anche se certo non è il solo, il celebre caso (che forse rappresenta l’esempio più lampante di diritto positivo “al di là del bene e del male”) della legislazione razziale ed eugenetica posta in essere dal regime nazionalsocialista in Germania e, in parte, dal regime fascista in Italia, che porterà al triste epilogo di uno sterminio etnico.
L'approvazione delle leggi razziali nell'Italia fascista
Le stesse società contemporanee ci mostrano ancora come il diritto positivo possa essere usato per rendere incerti dei diritti inalienabili quale quello alla vita. Basti pensare alla legislazione positiva abortista e sostenitrice dell'eutanasia vigente in numerosi Stati. O ancora quella legislazione tipica dei Paesi governati da regimi di stampo marxista-populista che in passato - e in diversi casi ancora oggi ­– ha limitato il diritto di godere di beni di proprietà privata o ha ostacolato notevolmente la possibilità dei cittadini di usufruire dei benefici economici provenienti dall'economia aperta, dal libero commercio e dalla libertà d’iniziativa economica privata. O infine tipi di legislazione che nel corso della storia in più occasioni hanno legittimato la schiavitù, la tortura, la deportazione, la persecuzione, la discriminazione e l’intolleranza, e che, finalmente, il diritto internazionale umanitario ha abolito e penalizzato nel corso del secolo scorso: basti vedere a riguardo le principali decisioni prese a salvaguardia della persona umana con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. 
Questa breve premessa ci mostra come in certi casi il diritto positivo possa trasformarsi, come molte  volte è avvenuto, in uno strumento di giustificazione di comportamenti criminali in contrasto con i principi che sorreggono l’ordine naturale delle cose. Prima di proseguire oltre, però, occorre soffermarsi sul concetto di diritto positivo. Cosa si intende, infatti, con questo termine?
Il diritto positivo è, parafrasando l’elenco delle caratteristiche che di esso ne offre Bobbio, un diritto “particolare” e “mutevole”, derivante dalla volontà del detentore della sovranità politica e contenente disposizioni non necessariamente buone o cattive in sé e per sé, ed incentrate soprattutto sull'utilità, ossia considerate come mezzi per raggiungere uno scopo desiderabile ai fini e per il bene dello Stato stesso. Esso è particolare perché ha vigore solo entro i confini statuali, ed è mutevole perché il legislatore che l’ha posto in essere può abrogarlo in ogni momento.
In ultima analisi, quindi, quando si parla di diritto positivo ci si riferisce al diritto statuale imperativo che una volontà particolaristica dotata di sovranità politica ha posto in essere, sia essa quella del Re nel caso di una monarchia assoluta, sia essa del Re e del Parlamento insieme come nel caso di una monarchia costituzionale, sia essa del Parlamento come nel caso di una repubblica parlamentare.
Da quanto scritto appare chiaro che fino a quando le leggi positive mantengono un contatto con quelle naturali e, magari, ne ricalchino l’immagine, non sorgono problemi di entità seria.
Ma quando invece le travalicano, per ciò stesso esse diventerebbero ingiuste e “perverse”, e tuttavia, essendo leggi, il loro potere cogente non potrebbe essere messo in discussione da nessuno e dovrebbero essere in ogni caso eseguite e rispettate. L’idea alla base del diritto positivo è che esso debba essere applicato indipendentemente da ciò che il giudizio dei singoli ne abbia a riguardo. Naturalmente i giuspositivisti savi comprendono subito che il diritto positivo non può essere disgiunto dalla ragione e dal buon senso, che operano spontaneamente per garantire la salvaguardia dell’uomo nel mondo. Montesquieu, ad esempio, sostiene proprio che la legge positiva debba seguire i principi della ragione umana. Dice infatti il filosofo francese:
Montesquieu

La legge, in generale, è la ragione umana, in quanto governa tutti i popoli della terra, e le leggi politiche e civili [ossia le leggi positive] di ogni nazione non devono costituire che i casi particolari ai quali si applica questa ragione umana.

Si è visto come con la diffusione del modello di Stato nazionale moderno il diritto positivo abbia sostituito in toto il diritto naturale. Molto spesso esso ha ribadito in forma chiara e cogente i principi della ragione naturale, altre volte è servito da strumento per imporre un’ideologia politica che non sempre si atteneva a quei principi. In alcune società la religione ne ha fatto da sfondo, come nel caso dei Paesi islamici in cui vigeva o vige la shari’a, ossia la legge coranica; in altri è stato utilizzato per soppiantare la religione stessa, come avvenuto in alcuni Paesi comunisti.
E’ indubbio, però, che, nonostante i suoi difetti, il diritto positivo possiede anche dei pregi. Esso, infatti, ha svolto almeno tre funzioni storiche fondamentali:

1)      Ha reso il diritto certo. Prima delle codificazioni normative, infatti, i particolarismi giuridici e le consuetudini locali offrivano un panorama caotico degli ordinamenti giuridici statuali.
2)      Ha contribuito a diffondere l’uguaglianza giuridica. Grazie ad esso, infatti, i privilegi cetuali tipici degli Ständestatt, ossia gli Stati di stati di antica matrice feudale, sono poi scomparsi. Ogni uomo all'interno dello Stato è stato trasformato in cittadino, cioè in un unico soggetto giuridico con facoltà ed oneri eguali dinnanzi alla legge.
3)      Ha gettato le basi per la diffusione del modello di Stato di diritto, ossia di una forma di Stato ben disciplinata in cui ogni aspetto giuridicamente rilevante della vita civile è regolato da norme organiche ed omogenee.

Per concludere, il diritto positivo statuale non è inaccettabile. I vantaggi che può garantire, quali la certezza giuridica, l’uguaglianza dinnanzi alla legge e l’organicità della normazione, possono offuscarne gli svantaggi. E’ però fondamentale che, come visto, il suo utilizzo non sia mai disgiunto dal corretto uso della ragione umana e che esso sia posto in essere a beneficio della giustizia sociale, del benessere economico e, per quanto possibile, del miglioramento delle condizioni di vita umane in uno Stato. Esso dovrebbe essere coerente con le prerogative inalienabili di cui ogni essere umano è dotato relative alla tutela della sua vita, della sua dignità, della sua incolumità e - perché no? – della sua felicità. In una parola, esso deve costituire lo strumento a difesa della salvaguardia della persona umana e del pianeta in cui vive. E pensiamo che quest’asserzione possa essere considerata accettabile dalla maggioranza delle persone, siano esse di orientamento cristiano, liberale o socialista.

Una disposizione normativa positiva che ordinasse a tutti i consociati alti più di un metro e ottanta di gettarsi dalla finestra più alta della loro abitazione, a mezzogiorno, vestendo in abito blu, non dovrebbe essere de facto eseguita, in quanto irrazionale ed immorale: se ancora vivesse qualcuno di savio presso quella popolazione sarebbe suo dovere di sottoporre a fermo il legislatore, farlo svernare in un efficiente istituto di igiene mentale e costringerlo, dopo la cura, ad abrogare simile disposizione.


Riferimenti bibliografici:

N. Bobbio, Il Positivismo Giuridico, Torino, Giappichelli, 1996.

C-L. de Montesquieu, Lo Spirito delle Leggi, Milano, BUR, 2007.


martedì 24 febbraio 2015

From Nuremberg to The Hague: an overview of the evolution of punishment of international crimes



Before the end of World War 2, the international community contemplated only two kinds of international crimes: piracy and war crimes. Regarding piracy, according to custom, all States were entitled to punish the crew of a pirate ship, and this included the faculty to chase and capture the ship in all waters, whether international or domestic through mutual solidarity. With regard to war crimes, the punishment for war criminals was limited to belligerent States, and had to cease as soon as the hostilities would end; some sporadic Conventions attempted to codify the main war crimes in international law (e.g. the Hague Conventions of 1899 and 1907; the Geneva Conventions of 1864, 1906 and 1929). 
The Nuremberg Tribunal 
However, the atrocities committed by the Axis powers during World War 2 convinced the Allies that the Nazi and Japanese military and political elite responsible for the outbreak of the conflict and for mass killings and appalling atrocities deserved an exemplary punishment. Therefore, they established two main special tribunals, one for the Germans and one for the Japanese. The former is the famous Nuremberg Tribunal, created with the London’s Agreement of 1945, and the latter the so-called International Military Tribunal for the Far East (IMTFE), better known as Tokyo Tribunal. Through the creation of these two military tribunals, the international community had already identified the major individual international crimes, which would have reappeared, as we will see, in the Statute of the International Criminal Court.
Later, from Nuremberg onwards, the international community has attempted to punish international crimes through the institutionalization of international tribunals. The most famous after the end of World War 2 are three. The first is the International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia (ICTY), established in 1991, a body of the United Nations established to prosecute serious crimes committed during the wars in the former Yugoslavia, and to try their perpetrators: it is an ad hoc court located in The Hague. The second is the International Criminal Tribunal for Rwanda (ICTR), established in November 1994 by the United Nations Security Council in order to judge people responsible for the Rwandan Genocide and other serious violations of international law in Rwanda, or by Rwandan citizens in nearby states, between the 1st of January and the 31st of December 1994. The last is the International Criminal Court (ICC), an intergovernmental organization and international tribunal that sits in The Hague, established with the Statue of Rome of 1998.
Sniper area in Bosnia during the 1992-95 war
The ICC’s Statute reformulated the main international crimes, as anticipated at Nuremberg, by listing three and foreseeing a fourth:

-Genocide (art 6): it is the total or partial annihilation of a national, ethnic, racial or religious group;

-Crimes against humanity (art 7): they include the following deeds when committed methodically and on a large scale: a) murder; b) enslavement; c) deportation or forced transfer of peoples; d) deprivation of freedom; e) torture; f) rape; g) forced prostitution; h) political, racial, religious and sexual persecutions that can provoke great pain.  

-War crimes (art 8): they are specific deeds committed in wartime like: a) violations of the norms of the 1949 Geneva Convention on humanitarian war law; b) forced recruitment of war prisoners; c) kidnapping hostages; d) intentional attacks on civilian targets. 

-Crimes against peace (art 5): it represents the crime of aggression. In a compromise reached during the negotiation of the Rome Statute in 1998, Article 5 of the Rome Statute lists the crime of aggression as one of the core crimes under the Court’s jurisdiction. However, in contrast to the other abovementioned three crimes, the Court remained unable to exercise jurisdiction over the crime of aggression as the Statute did not define the crime or set out jurisdictional conditions. However, in 2010, the Review Conference of the Statute of Rome held in Kampala (Uganda) adopted by consensus amendments to the Statute which include a definition of the crime of aggression and a regime establishing how the Court will exercise its jurisdiction over this crime. According to Kampala’s amendments, the definition of crime of aggression is the planning, grounding, beginning and developing of an act of aggression by a person that holds political and military power, in manifest violation of the United Nations Charter.     

All crimes listed in the ICC’s Statute are imprescriptible. It is relevant to highlight that the norms disciplining punishments of international crimes address directly to individuals.
The ICC building in The Hague
As noted, the International Criminal Court was established in 1998, and by 2002, more than 100 States had already ratified its founding Statute. Unlike the UN international criminal tribunals, the ICC is a permanent body authorized to try individuals that are responsible for committing grave crimes whilst covering a military or governmental official and public role. It is independent from the United Nations, and has a judicial staff of eighteen judges in office for nine years that belong to the member States. It has complementary jurisdiction with the judicial organs of the member State: this means that the ICC has jurisdiction over a case only if the most involved State in the case does not want or cannot conduct investigations or celebrate the trial. Notwithstanding, there is an exception to this rule: there cannot be an ICC jurisdiction if the alleged culpable has already been convicted or acquitted by the member State (i.e. principle of ne bis in idem). Moreover, there cannot be jurisdiction for citizens that belong to States that are not member parts of the Statute of Rome. Nor can there be jurisdiction over situations that occur across the land of a non-member State, unless it is consentient (i.e. principle of ineffectiveness of treaties in Third States). On the other hand, the jurisdiction is automatic if a State is a member part of the Statute, for crimes contemplated within it. The budget of the court is offered by the member States and also taken by the ordinary UN budget.  The UN international criminal tribunals, conceived as tools to punish the perpetrators of severe crimes against humanity, like those for former Yugoslavia and Rwanda, are funded both by the UN member States and by the operational budget of a UN peacekeeping operation. At the request of the court, the States that hold the alleged criminal must deliver him to the court and other internal judicial bodies must waive their jurisdiction over the case. The power of initiative to start a trial belongs either to a member State or to the Prosecutor.
Machetes used in the Rwandan Genocide of  1994
Alongside with these kinds of courts, other judicial bodies exist known as Hybrid (or Mixed) International Criminal Tribunals. These apply a mixed law, both international and domestic, and are formed by mixed personnel, that is local and foreigner. Examples of them are the International Criminal Tribunals of Kosovo, East Timor, Cambodia, Sierra Leone, and Lebanon. The courts use local personnel in order to better approach the local population. The reason for their establishment is also to back up the UN tribunals, which are often insufficient for dealing with all procedures, if not incapable. It is mandatory that the local government will cooperate actively with the courts. Thanks to the knowledge of the national law and of the indigenous customs, it is easier to find witnesses and legal evidence. Indeed, amongst international jurisdictions the Hybrid Tribunals are the most flexible, although it is often difficult to fund them. Usually, they are instituted in the location where the crime took place. Al of them are not permanent, but rather temporary, and cease to exist when they finish their work. One of their utility is to fill the gaps of the ICC and to side it when too busy in coping with other international cases.               
Often, the individual that commits an international crime is an organ of his own State; this implies the rise of two kinds of responsibilities:

-International responsibility of the State.

-International responsibility of the individual/organ of the State.

According to the principle of territoriality, a State can bring to trial an alleged criminal only if he is responsible for committing crimes within its sovereign territory. On the other hand, the principle of universal jurisdiction affirms that an individual may be brought to trial in other States if the alleged foreign criminal finds himself in the territory of the State when he must be trialed and only if his national State or another closely involved State do not wish to prosecute him for themselves. In terms of international immunities, the international criminal jurisdiction cannot take place in the case of Chiefs of State, Chiefs of Government, Ministers and Diplomats until they are exercising their official duties. In any case, the punishment of international crimes cannot derogate from the safeguard of fundamental human rights.


References:

A. Cassese, International Law, USA, Oxford University Press, 2001.     



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