Secondo
quanto ritiene Carl von Clausewitz (1780-1831), il celebre generale e teorico
militare prussiano autore del trattato “Della Guerra” (Vom Kriege), esistono due tipi distinti di guerra:
-Guerra di abbattimento o di annientamento.
-Guerra limitata nello scopo e nei mezzi (circoscritta).
La prima ha lo scopo di annientare politicamente il
nemico o semplicemente di disarmarlo e di costringerlo ad una pace a
discrezione del vincitore; la seconda invece serve soltanto per conquiste ai
confini del territorio nemico al fine di annetterle o di utilizzarle quali
mezzi di scambio nel corso delle trattative di pace.
Allo stesso tempo, esistono anche due tipi diversi di
pace:
- Pace dettata od
imposta (unilaterale).
-Pace negoziata e
contrattata (bi- o plurilaterale).
La prima presuppone una vittoria decisiva ma non necessariamente
la scomparsa politica del nemico; al contrario, la seconda presuppone una
vittoria o un andamento bellico non definitivi né risolutivi, ovvero la volontà
di non impegnarsi in una guerra decisiva per imporre la pace.
Non si inizia nessuna guerra senza sapere cosa si voglia
raggiungere mediante essa. Ed in ogni caso, la guerra va combattuta tenendo
sempre presente il tipo di pace cui si mira: invero, più importante della
vittoria è saper sfruttare la vittoria.
Carl von Clausewitz |
Circa la differenza tra strategia e tattica, la prima
rientra in senso lato nella sfera più propriamente politica di uno Stato,
ricomprendendo quindi non solo considerazioni squisitamente militari, laddove
la tattica attiene esclusivamente alla condotta militare della guerra,
descrivendo il tipo di tecnica militare che si utilizza nel corso di una
battaglia. E’ altresì importante rilevare che la strategia può indicare una
campagna militare nel suo complesso, mentre la tattica in generale descrive più
piccoli dettagli all’interno della campagna stessa (una battaglia, una
scaramuccia, un inseguimento, una ricognizione, ecc.).
Per Clausewitz, la
violenza fisica è il mezzo, laddove l’imposizione della volontà è lo scopo
della guerra (se non v’è scopo, non
v’è mezzo). Ne deriva che ogni guerra inizia poiché esiste uno scopo che si
vuole ottenere con essa.
Il logoramento, che rappresenta il consumo graduale delle
forza armate avversarie, può essere sfruttato da una condizione difensiva
(negativa): non ha senso ai fini dell’economia di guerra infatti per l’attaccante
logorare il nemico attivamente (condizione aggressiva positiva), ma è meglio
che il nemico si logori per fattori oggettivi che non sprechino le nostre proprie
forze, come le condizioni climatiche, l’isolamento dalle sue linee di
comunicazione, ecc.
Se un difensore risulta essere un bravo difensore
comincerà la battaglia, o la guerra, in condizioni di difesa e le finirà in
veste di attaccante, ribaltando la situazione a suo vantaggio. Sebbene è molto
facile che da una situazione di conflitto politico-territoriale possa sorgere
una guerra di annientamento, in verità è molto più ricorrente e facile che ne
derivi una semplice guerra circoscritta nello spazio e nel tempo. Una guerra di
annientamento, comunque, prevede sempre un riassetto geopolitico degli Stati,
una guerra circoscritta (anche se in essa si sono combattute battaglie d’annientamento
decisive) generalmente no.
Ma che cosa è la guerra? Per Clausewitz la guerra
costituisce niente più che un duello più
esteso. Più specificamente, la guerra, che ha lo scopo più immediato di
rendere incapace l’avversario di ogni ulteriore resistenza abbattendola, è un atto di violenza per costringere l’avversario
a eseguire la nostra volontà. Se quindi scomponiamo le parole chiave dell’essenza
della guerra vediamo che essa presuppone la violenza, ossia una qualche forma
più o meno accentuata di coercizione fisica e psicologica, e l’annichilimento
della volontà dell’avversario, ossia la distruzione della volontà di tensione
ostile del nemico nei nostri confronti e la sua sostituzione con la nostra
volontà, che va ad imporre un obbligo di sottomissione. E per quanto riguarda
il vero obiettivo dell’azione bellica, esso consiste nel disarmo del nemico.
Per quanto riguarda invece la conduzione della guerra,
occorre distinguere tra quella posta in essere dai popoli civili e dai popoli
selvaggi. I popoli civili, che sono mossi dall’intelligenza, combattono una
guerra spinti da intenzioni intelligenti (scopo
intelligente), dunque sono mossi da intenzioni ostili giustificabili dal
punto di vista razionale. Al contrario, i popoli selvaggi combattono per puro
spirito emotivo, dunque senza scopo, ossia per un mero sentimento ostile innato
e spurio, fine a se stesso e improduttivo (scopo
emotivo). Ne deriva che i popoli civili possono raggiungere obiettivi
maggiori a spese minori, concentrandosi a minimizzare le perdite umane e di
massimizzare il profitto finale del conflitto. Le guerre più intelligenti sono
quelle che si vincono con il minore spargimento di sangue possibile, sia
proprio che avversario, e tuttavia raggiungendo lo scopo maggiore che ci si
prefiggeva allo scoppio del conflitto. Nell’antica arte militare la battaglia
più intelligente e risolutiva era quella che si faceva esclusivamente
manovrando, senza bisogno di ingaggiare il combattimento: la vittoria d’astuzia,
che economizzava il fattore perdite umane, prevedeva il riposizionamento dell’esercito
in posizioni di vantaggio attraverso il mero consumo dei tacchi degli stivali,
senza spargimento di sangue ma con il nemico obbligato ad arrendersi. Come si
poteva giungere alla vittoria d’astuzia? Spostando celermente il proprio
esercito e accerchiando quello avversario con movimenti imprevisti ed
immodificabili (per un esempio concreto, basti, per tutti, la conduzione
napoleonica della battaglia di Ulma nell’ottobre 1805).
Capitolazione del generale Mack a Ulma (ottobre 1805) |
Per eliminare l’avversario, ossia per disarmarlo (disarmo = liquidazione dell’avversario),
occorre commisurare i propri mezzi disponibili bellici e forza di
volontà/morale delle nostre truppe con gli stessi parametri di cui dispone l’avversario.
La guerra vede sempre opposte due forze armate (tre o più fazioni in armi tra
loro vi possono tuttavia essere in caso di guerra civile, ma non è escluso che
si possano coalizzare tra loro, trasformandosi in due), ossia attaccante e difensore: ad esse poi si collegheranno le forza armate alleate
delle rispettive coalizioni. Nella storia della guerra non si è mai registrato
il caso di uno scenario in cui di tutte le potenze lottassero contro tutte, invece
è sempre ricorso il caso di coalizioni che, sebbene in combattimento su diversi
fronti, facevano sempre riferimento ad una sola coalizione, lega od intesa (e
ciò, naturalmente senza che Clausewitz potesse prevederlo, sarebbe valso anche
per i due conflitti mondiali). L’esigenza di costituire una coalizione o intesa
nasce dalla semplice costatazione matematica per la quale l’” unione fa la
forza, la divisione la debolezza” e dunque è naturale cercare di far valere i
propri interessi congiuntamente anziché isolatamente. In generale, poi, quando
si considerano le forza armate in combattimento in una guerra, soprattutto nel
caso di guerra totale, esse non vanno circoscritte soltanto all’esercito
regolare, ma comprendono altresì il popoli (tanto più in caso di coscrizione
obbligatoria), lo Stato (ossia l’apparato politico-burocratico) e la nazione
geografica; ecco perché quando si parla di popolo in armi bisogna espanderne il
più possibile l’accezione, nel senso di includerne la geografia fisica, la
geografia politica, lo spirito del popolo, la razza del popolo, il sistema dei
valori morali, religiosi e politici.
La storia insegna che contro un nemico comune è sempre
meglio unirsi in lotta, superando le eventuali particolaristiche rivalità in
vista del bene comune e per sconfiggere insieme il male peggiore. Ciò non
esclude che quando si sia sconfitto il nemico comune si possa tornare nella
disunione a combattersi reciprocamente in modo particolaristico. Pensiamo ad
esempio ai greci, che si unirono per sconfiggere i persiani invasori nel 490
a.C. e 480-479 a.C. salvo poi scindersi in due leghe, quella che faceva capo ad
Atene e quella che faceva capo a Sparta, per combattersi tra loro nella guerra
del Peloponneso (431-404 a.C.). Oppure pensiamo al caso dei galli, molti dei
quali si unirono a Giulio Cesare per sconfiggere Ariovisto e i suoi germani,
salvo poi scivolare via dall’alleanza romana per combattere con gli altri galli
contro Cesare nel corso della guerra di Gallia (58-51 a.C.). La vittoria di una
coalizione comporta la sconfitta dell’altra: non vi possono essere mai due
vittorie, ma al massimo soltanto due pareggi. Ad esempio, la battaglia della
Moscova (battaglia di Borodino) del settembre 1812 rappresenta un caso di
pareggio, anche se si può considerare una quasi-vittoria di Napoleone. La guerra di difesa prevede in genere un
numero di uomini di esiguo, o comunque meno rilevante, rispetto alla guerra d’aggressione.
Concretamente parlando, se per difendersi da un attaccante si deve possedere un
certo numero di soldati, per attaccare occorre avere un numero di soldati
sufficiente per la difesa del proprio territorio e in più per attaccare il
nemico. Dunque se si attacca bisogna essere certi di essere nelle condizioni di
poter attaccare, tenendo conto ance delle truppe di riserva; bisogna anche
avere la sicurezza che l’attacco, qualora fallisca, non incida negativamente
sulla necessità di difesa del proprio paese. Ciononostante, la guerra, per
quanto la si possa a ridurre a calcoli matematici, è sempre pregna di eventi imprevedibili,
fortunati, casuali, inaspettati, impensabili e il calibro del genio si misura
nella sua capacità di sfruttarli a suo vantaggio.
Vi sono tre regole fondamentali che vanno rispettate se
si voglia garantire la vittoria della campagna militare:
-Le forze armate del nemico vanno messe
nelle condizioni di non poter proseguire la lotta (cioè vanno disarmate).
-Lo Stato del nemico deve essere
temporaneamente occupato per assicurarsi che non addestri nuove truppe.
-La volontà del nemico (tanto del suo Governo
che di quello dei suoi alleati) va indotta alla sottomissione e alla pace.
Addivenendo alla pace, qualora essa sia giusta e
proporzionata al tenore della guerra, la resistenza dovrebbe venire meno,
soprattutto nel caso in cui l’élite politica convinca il suo popolo ad
accettare l’accordo.
Per quanto riguarda il logoramento del nemico, di cui già si è accennato, occorre
sottolineare che, tanto in una battaglia che in una campagna, esso consiste
nell’esaurimento progressivo delle forze fisiche e della volontà nemiche
prodotto dalla durata dell’azione. La resistenza, che è uno degli strumenti (oltre,
ad esempio, alla guerriglia, o, in battaglia, alla tattica del “mordi e fuggi”)
per attuare il logoramento, deve produrre la distruzione delle forze del nemico
a tal punto da costringerlo a rinunciare al suo intento bellico.
Al fine di ottenere la vittoria, ossia di imporre la
nostra volontà su quella del nemico, si può ricorrere a diversi espedienti
politico-militari:
-Annientare le forze
nemiche.
-Conquistare le
province del nemico.
-Invadere ed occupare
temporaneamente le province del nemico.
-Porre in essere atti
politico-diplomatici quali anche ricatti e minacce.
-Attendere passivamente
l’urto nemico per poi sfruttare i vantaggi della condizione bellica difensiva.
-Porre in essere le
tattiche di logoramento quali la resistenza (attiva o passiva), la guerriglia,
la tensione psicologica ostile verso l’occupante, ecc.
E’ chiaro però che nonostante tutti i mezzi e gli
espedienti utilizzati, è sempre la lotta ad essere alla base della guerra,
poiché tutto, nello stato di guerra, soggiace alla legge suprema della
decisione delle armi e all’ordalia del combattimento. Senonché, fanno parte della
guerra, o meglio della conduzione della guerra, oltre che il combattimento
altri elementi quali: il reclutamento, l’armamento, l’equipaggiamento, l’esercitazione,
l’apprestamento dell’artiglieria, l’arte delle fortificazioni.
Riferimenti bibliografici:
C. von Clausewitz, Della
Guerra.