Clausewitz traccia una marcata distinzione tra tattica e
strategia. Per tattica è da
intendersi la dottrina dell’impiego delle forze armate nel combattimento,
laddove la strategia indica invece
la dottrina dell’uso dei combattimenti per lo scopo della guerra. Per
illustrare meglio questa diversificazione possiamo prendere come esempio la
campagna napoleonica di Russia: la battaglia di Borodino rappresentava la
tattica, l’invasione dell’Impero russo la strategia. Invero, la campagna di
Russia del 1812, fino all’arrivo a Mosca, è una vittoria francese nel breve
periodo ma una sconfitta nel lungo. Bonaparte avrebbe dovuto costringere lo zar
Alessandro I alla pace, ossia costringerlo a patteggiare, e solo così vi
sarebbe stata una vera vittoria strategica. Invece, una volta conquistata
Mosca, Napoleone non seppe come procedere: si era prossimi all’inverno, gli
uomini mancavano di vettovagliamento e lo zar era scappato nell’interno del paese,
verso la Siberia. Di conseguenza, l’invasione francese della Russia rappresenta
un esempio di storia militare di invasione priva di effetti politici,
caratterizzata da episodi squisitamente militari e, perciò, priva di effetti e
fine a se stessa. Utilizzando una simpatica metafora, Clausewitz asserisce che
senza alcun trattato di pace e nessuna conquista, Bonaparte era come un ladro
che entra in casa e non trova i padroni, rompe per sfregio ma non può chiedere
i soldi perché non li trova, e dunque è presto costretto ad andarsene via. Tanto
più presto, possiamo aggiungere, in quanto i padroni di casa abitavano in terre
notevolmente inospitali, da un punto di vista climatico, durante l’inverno.
Volendone tracciare un bilancio, la campagna napoleonica di Russia ha
dimostrato a) che non si può conquistare un esercito di grandi dimensioni con
mezzi ottocenteschi, b) che la vittoria in battaglia e la conquista di
città-chiave non comporta necessariamente la pace con il popolo aggredito e c)
che temporeggiare può essere benefico in quanto permette ai difensori di
trasformarsi, successivamente, in aggressori.
Incendio di Mosca, settembre 1812 |
La tattica rappresenta dunque la dottrina del movimento
delle truppe: in quest’ambito, pertanto, la geometria riveste un ruolo
fondamentale. La tattica principale, d’altronde, consiste nell’aggirare il
nemico per colpirlo ai fianchi o da tergo. La strategia, invece, determina tre
elementi principali: a) dove combattere, b) quando combattere, c) contro chi
combattere e utilizzando cosa.
Che cosa rappresenta, però, la guerra? Essa si può
considerare un’arte o piuttosto una scienza? Da dove sorge? E’ un fenomeno
partorito dal rigore o dall’impulso? Di certo è che il grembo da cui sortisce
il conflitto armato è sempre quello della politica. Tutti conoscono bene,
d’altronde, che per Clausewitz la guerra
non è altro che la prosecuzione della politica con altri mezzi.
Tra gli elementi che consentono di conseguire una
vittoria in guerra non è sempre decisivo quello che assicura la superiorità numerica
di uno dei contendenti. E’ vero anzi che concorrono per la vittoria fattori
diversi tra i quali il rifornimento ed il vettovagliamento dell’esercito, il
rimpiazzo di uomini ed armi, la certezza dei collegamenti e la sicurezza del
ripiegamento tattico in caso di necessità. Per quanto attiene le potenze morali di un esercito, esse
includono a) il talento del capo, b) la virtù guerriera dell’esercito, c) lo
spirito del popolo (quindi la sua motivazione e il suo morale). Un popolo
guerresco dovrebbe possedere diverse qualità fra cui il valore, l’adattabilità,
la resistenza e l’entusiasmo. Dovrebbe inoltre essere pronto a intraprendere
una guerra in diversi ambienti e condizioni naturali: se combatte nelle
montagne o nelle fitte foreste, terreni ideali per la guerriglia, si richiedono
soldati con alto spirito di fede, convincimento, zelo, agilità, adattabilità,
ecc.; la guerra sul terreno aperto, invece, privilegia la professionalità, il
coraggio temprato, la rigida disciplina e l’obbedienza assoluta ai propri
superiori al fine di eseguire le manovre tattiche con massima precisione e
sincronizzazione.
Volendo confrontare due eserciti dell’antichità per
comprendere gli elementi costitutivi della vittoria in guerra possiamo
ricordare le guerre persiane (490 e 480-479 a.C.) combattute tra greci e
persiani. Le motivazioni per cui i greci hanno sconfitto i persiani in queste
campagne sono varie. Prima di tutto i persiani rappresentavano un esercito
eterogeneo di schiavi dalle origini ed etnie diverse e ciò chiaramente andava a
scapito della motivazione e del morale. L’esercito persiano fondava la sua
forza non sulla qualità ma sulla quantità, e inoltre gli attacchi che portava
avanti erano per lo più privi di fantasia tattica, reggendosi meramente sul
principio di superiorità numerica. Mancava poi qualunque tipo di ideale da
difendere, i quanto non esisteva presso questi schiavi né il senso patrio né il
senso della famiglia. Infine, le truppe persiane, eccezion fatta per gli
Immortali, erano scarsamente addestrate e la policroma origine impediva perfino
la comunicazione tra esse. Al contrario, i greci possedevano tutto ciò che ai
persiani mancava: senso della patria, organizzazione e disciplina, motivazione
procurata dal desiderio di difesa del territorio e delle famiglie,
addestramento minuzioso e assenza di coercizione a combattere (era un esercito
che combatteva per libera scelta, non per comando superiore).
Battaglia di Platea, 479 a.C. |
In strategia, non importa la superiorità numerica
avversaria, o almeno sicuramente non è decisiva: ciò che importa davvero,
invece, è convergere al momento opportuno il maggior numero di soldati al
combattimento nel punto decisivo o
focale. Se poi consideriamo le operazioni di guerriglia montane o boschive
allora la superiorità numerica davvero non conta nulla. Nelle battaglie
campali, invece, essa può contribuire alla vittoria, ma non è sempre così e spesso
addirittura è un intralcio alla vittoria stessa. Lo spazio-tempo è l’elemento centrale della strategia; in esso
rientrano:
- La corretta valutazione degli eserciti avversari.
- Il ruolo delle truppe di avanguardie in esplorazione e
pattugliamento per individuare l’avversario.
- Le marce forzate.
- La temerarietà di attacchi fulminei.
- Le manovre di accerchiamento e di aggiramento dei
fianchi nemici in modo che il numero dei soldati avversari assuma un
significato relativo per l’esito dello scontro.
L’effetto sorpresa
è fondamentale in guerra. Senza sorpresa non vi può essere superiorità nel
punto decisivo; inoltre, è la sorpresa a portare allo scompiglio dei ranghi
avversari dovuto a confusione, panico e timore. La sorpresa necessita di
direttive precise, di segretezza, di rapidità, di coordinamento, di mimesi.
Ai tempi di Clausewitz le caratteristiche di una
battaglia tra contendenti di forza simile erano molto comuni fra loro. Esse
prevedevano delle tappe quasi fisse, che si succedevano a ritmo cadenzato:
- Sistemazione delle truppe in grandi masse ai lati e
dietro il campo di battaglia.
- Dispiegamento di una parte delle truppe in una
formazione che sia scelta in funzione della formazione adottata dall’avversario
(ad esempio in colonna, in linea o in quadrato a seconda di come il nemico ha
schierato le truppe e quali tipologie di truppe ha deciso di impiegare).
- Scontro in combattimento a fuoco, dapprima tra batterie
d’artiglieria e poi tra fucilerie, che poteva durare diverse ore (soprattutto
il fuoco di batteria e controbatteria).
- Eventuali e mutevoli assalti alla baionetta o
incursioni di cavalleria durante lo scontro a fuoco.
- Ricambio delle vecchie truppe con truppe più fresche in
ogni reggimento esposto direttamente al combattimento.
- Cessazione momentanea delle ostilità dopo avere
concordato un termine (una tregua).
- Bilancio approssimativo delle perdite proprie ed
avversarie e valutazione del guadagno o meno di spazio e di quanta sicurezza si
conserva alle proprie spalle rispetto alle linee di comunicazione.
- Ipotetico mutamento del piano di guerra dovuto alle
incombenze.
- Decisione se abbandonare il campo di battaglia
ripiegando in ordine, se rinnovare il combattimento, o se proclamarsi vincitori
(quest’ultimo evento concepibile solo se il nemico accetta di dichiararsi
ufficialmente sconfitto).
Per decidere se un combattimento è decisivo gioca un
ruolo fondamentale il fatto se il nemico è in grado di disperdersi, (dunque di
ripiegare) e di unirsi ad altre truppe collocate in altri territori. L’esercito
che, sebbene dimezzato, riesce a congiungersi ad un altro esercito non
rappresenta un esercito sconfitto, ma solo un esercito indebolito. Inoltre, la
vittoria si ottiene sempre se un esercito non è più in grado di imbracciare le
armi o perché annientato materialmente con la violenza o perché i soldati che
lo compongono sono divenuti prigionieri dei vincitori. Gli attacchi sui fianchi
o da tergo influiscono più favorevolmente sul risultato successivo alla
decisione di sferrarli che non sulla decisione stessa: ad esempio, un
contingente di rinforzo che viene inviato alle spalle dell’avversario risulterà
in condizione di relativa debolezza in quanto lontano dal resto del suo
esercito, isolato e a sua volta a rischio di aggiramento.
Un bravo comandante dovrebbe capire quando far proseguire
o cessare uno scontro tenendo in considerazione i cosiddetti indici di andamento della battaglia,
tra i quali:
- Numero di batterie operative rimaste rispetto al
nemico.
- Situazione dei soldati e coesione del reggimento dopo
le cariche di cavalleria nemica.
- Penetrabilità o compattezza dei battaglioni di fanteria
propri e nemici.
- Arretramento o avanzamento tattico della linea di
fuoco.
- Perdita o conquista di posizioni chiave nel campo di
battaglia (case, villaggi, fiumi, ponti, ecc.).
- Assottigliamento eccessivo dei battaglioni in prima
linea (feriti, fuggiaschi, disertori, perdite).
- Quantità di reparti tagliati fuori o fatti prigionieri.
- Valutazione della pericolosità che un ripiegamento
ordinato si trasformi in rotta caotica soggetta ad inseguimento da parte del nemico.
- Salvaguardia delle vie di fuga dalle manovre a tenaglia
o dalle sopraggiunte riserve del nemico.
Nel caso in cui il comandante percepisca che la sconfitta
del suo esercito è prossima il suo principale obbligo sarebbe quello di evitare
a tutti i costi la disfatta. In questo caso, infatti, occorre che l’esercito
ripieghi ordinatamente, lasciando dietro di sé le truppe in prima linea e
sfruttando i reparti di cavalleria leggera per coprire la ritirata e per
rispondere alle cariche nemiche con contro-cariche. Quando un generale non
vuole una scaramuccia o un combattimento minore, ma una battaglia decisiva lo
si potrà comprendere dal numero di truppe impiegate: la concentrazione di tutte
le forze di cui dispone per un’unica battaglia è indice della ricerca di una
battaglia risolutiva del conflitto. Per quanto riguarda poi il vincitore, il
suo compito principale è quello di inseguire il nemico battuto, quindi marciare
sulle sue capitali o città-chiave, ovvero conquistare subito il territorio
conteso. La cosa più importante, comunque, è che il vincitore scenda a patti
con lo sconfitto per dettare le condizioni di armistizio e quindi di pace.
Formazioni di fanteria |
Per quanto riguarda alcune definizioni strategiche, un teatro di guerra è un settore
territoriale in cui ha luogo un conflitto e può essere circoscritto da vari
tipi di confini: confini naturali, come fiumi, montagne o foreste; confini
umani come fortificazioni, cittadelle, avamposti; confini spaziali
convenzionali dati dall’estensione delle operazioni belliche. Per armata, invece, si intende una massa
combattente che si trova in un determinato teatro di guerra (pensiamo alle
napoleoniche Armata d’Italia, Armata del Reno, ecc.). Più masse di una stessa
armata nel medesimo teatro di guerra sono detti corpi, o, per essere più precisi, corpi d’armata. Inoltre, una campagna
include una sequenza di eventi strategici in un periodo di tempo, in un preciso
teatro di guerra (pensiamo alla campagna d’Egitto). Anticamente le campagne militari
erano annuali, nel senso che ogni primavera ricominciava una campagna militare
per poi interrompersi al sopraggiungere dell’inverno, con il ritiro dei soldati
negli acquartieramenti invernali. Per quanto riguarda le diverse armi, la cavalleria agisce tramite la mischia
individuale (ossia urto, corpo a corpo, inseguimento), l’artiglieria agisce tramite l’annientamento da fuoco (ossia
bombardamento, indebolimento ed assottigliamento dei ranghi nemici, riduzione
della velocità d’avanzata avversaria, conversione coercitiva per
cannoneggiamento dei reparti avversari, fuoco di controbatteria), la fanteria agisce secondo entrambi (fuoco
iniziale, assalto alla baionetta, corpo a corpo, inseguimento/ripiegamento). Il
corpo a corpo, o combattimento
individuale diretto, prevede che l’attaccante si muova e he il difensore
mantenga la posizione stando fermo sul terreno. A differenza della fanteria, la
cavalleria non può essere impiegata per mantenere una posizione difensiva ma
soltanto per attaccare. Mentre infatti la fanteria, che è la più completa delle
armi, può essere impiegata per il fuoco, per la difesa nel corpo a corpo e per
l’attacco nel corpo a corpo, la cavalleria, da un lato, può essere utilizzata
solo per l’attacco nel corpo a corpo, e l’artiglieria, dall’altro, solo per il
fuoco, ossia per l’annientamento da fuoco. Tutte le tre armi svolgono un ruolo
fondamentale in battaglia, ed è dalla loro interazione che emerge un esercito
completo e potenzialmente irresistibile. Tuttavia, se un esercito facesse a
meno della cavalleria (che ne incarna il movimento) perderebbe di meno che
facendo a meno dell’artiglieria (che rappresenta l’annientamento, l’attacco a
distanza e la potenza distruttrice). D’altro canto, un esercito di sola
fanteria ed artiglieria sarebbe penalizzato nel ripiegamento, inseguimento,
esplorazioni, incursioni ed accerchiamento. Un massiccio esercito di soli
fantaccini potrebbe avere un valore significativo nel caso di scontro con un
altro esercito di fanti, ma sarebbe profondamente vulnerabile ai bombardamenti
d’artiglieria (e ciò è vero quanto più l’esercito di fanti è compatto e fitto)
e molto più lento dei reparti di cavalleria nemica.
Riferimenti bibliografici:
C. von Clausewitz, Della Guerra.
Nessun commento:
Posta un commento