lunedì 23 febbraio 2015

Le teorie filosofiche della genesi dello Stato



A fondamento della genesi dello Stato vi sono, oltre alla teoria marxista, due teorie fondamentali: la teoria del conflitto e la teoria del contratto.
In base alla prima teoria, gli Stati sorgono come conseguenza di scontri tra individui e gruppi di individui o tra società. In quest’ottica, un gruppo di individui sarebbe riuscito ad imporsi su degli altri, subordinandoli a sé ed imponendo su di essi il proprio potere e la propria volontà, che sono andati poi consolidandosi con la creazione di istituzioni politico-amministrative stabili.
Per la seconda teoria, invece, lo Stato è il prodotto del bisogno individuale di protezione dagli inevitabili conflitti che si verificano nella società. Qui gli individui avrebbero deciso attraverso il loro consenso di sottostare a determinate regole contenute nel patto istitutivo dello Stato al fine di porre fine alle continue lotte che si verificano sia all'esterno che all'interno della società civile stessa.
La differenza tra le due visioni, come si può notare, è che nella prima la genesi statuale dipende da cause di forza maggiore esterne, mentre nella seconda da un consenso interno: la prima teoria è esogena ed oggettiva, perché frutto di un’imposizione; la seconda è endogena e soggettiva perché conseguente a una scelta.
Comunque la si voglia considerare, il verificare se storicamente gli Stati si siano formati attraverso il conflitto o il contratto trascende dagli obiettivi proposti in questa sede: ciò che qui preme sottolineare, invece, è che nella storia delle dottrine politiche numerosi filosofi hanno accolto idee simili, dell’una e dell’altra teoria, circa l’origine dello Stato.
Platone ha un’idea molto pragmatica ed utilitaristica intorno alla nascita dello Stato:

Platone
La nascita dello Stato dipende dal fatto che ciascuno di noi non basta a se stesso, poiché ha una molteplicità di bisogni. […] La gran quantità di questi bisogni fa riunire in unico luogo molte persone che si associano per darsi aiuto, e a questa associazione abbiamo dato il nome di Stato.

Per il filosofo ateniese, pertanto, la ragione principale per cui gli individui decidono di unirsi in società è l’utilità che proviene dall'aiuto reciproco.
Aristotele, invece, parte dal noto presupposto che l’uomo, essendo un animale socievole, tende per natura a riunirsi in società e collaborare in vista del bene comune:

Da ciò dunque è chiaro […] che l’uomo è un animale che per natura deve vivere in una città [πολιτικὸν ζῷον, ossia un animale civico] e chi non vive in una città, per la sua natura e non per caso, o è un essere inferiore o è più che
un uomo.

Per il grande filosofo di Stagira lo Stato è un prodotto naturale anteriore all'uomo stesso. Come infatti il tutto precede necessariamente le parti, così lo Stato precede ogni altra forma di comunità politica:

E’ dunque chiaro che la città [lo Stato] è per natura e che è anteriore all’individuo perché, se l’individuo, preso da sé, non è autosufficiente, sarà rispetto al tutto nella stessa relazione in cui lo sono le altre parti. Perciò chi non può entrare a far parte di una comunità o chi non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città, ma è o una belva o un dio.

Aristotele, infatti, sostiene che all'interno dello Stato ci siano più comunità inferiori, che appunto lo compongono come parte del tutto:

La comunità che si costituisce per la vita di tutti i giorni è per natura la famiglia […]. La prima comunità che deriva dall'unione di più famiglie volte a soddisfare un bisogno non strettamente giornaliero, è il villaggio […]. La comunità perfetta di più villaggi costituisce la città [lo Stato], che ha raggiunto quello che si chiama il livello dell’autosufficienza: sorge per rendere possibile la vita e sussiste per produrre le condizioni di una buona esistenza.

Il pensiero cristiano sostituirà l’amore civico, tipico della tradizione greco-romana, con l’amore filantropico. Per S. Agostino sarebbe proprio l’amore a spingere gli individui a riunirsi in uno Stato.
Afferma infatti il d’Addio:

Per S. Agostino lo Stato deve essere definito come la cosa del popolo,  ma il popolo deve invece essere concepito come l’unione degli individui fondata sulla concorde comunione delle cose che amano. Lo Stato, il suo ordinamento politico, la forza che riesce ad esprimere, non sono altro che l’espressione dell’amore di tutti i consociati per determinate cose. Il processo di unificazione dei desideri, della volontà, dei comportamenti degli individui di tutte le categorie ed ordini sociali, il consenso della collettività, scaturisce dall’ordo amoris, così come si manifesta nella comunità: solo l’amore è in grado di stabilire un reale rapporto di unione, di comunione dei sentimenti e pertanto di fare di una moltitudine una unità, che costituisca il fondamento dello Stato.

Bodin, che come Aristotele accetta l’idea che lo Stato sia costituito effettivamente da un insieme di famiglie, ci offre uno degli esempi più tipici della visione teorica conflittuale. Per il filosofo francese lo Stato nascerebbe allorché il capofamiglia, uscendo dalla sua casa ove è padrone assoluto, dotato di piena potestà sui figli e soggetto solo a Dio, si unisce ad altri suoi pari (ossia ad altri capifamiglia) dotati di eguali prerogative, trasformandosi da padrone in cittadino, cioè in libero suddito dipendente dall’altrui sovranità. Ora, ciò fu possibile nel momento in cui i capifamiglia si allearono tra loro, scegliendosi un comandante, e sconfiggendo in guerra degli altri capifamiglia nemici: nacque allora lo Stato, con le tre figure del signore/monarca (il comandante vittorioso), i liberi sudditi (i capifamiglia vincitori), gli schiavi (i capifamiglia sconfitti).
Tutto ciò è sviluppato nei Six livres de  la Republique in questi termini, e val la pena di riportare interamente il brano, data la sua importanza:

Jean Bodin
Infatti, prima che tra gli uomini fossero esistiti città, cittadini e una qualche forma di Stato, ciascun capofamiglia era sovrano nella sua casa e aveva potere di vita e di morte sulla moglie e sui figli; ma, dopo che la forza,  la violenza, l’ambizione, l’avidità, la vendetta ebbero armato gli uni contro gli altri [capifamiglia] l’esito delle guerre e dei conflitti, dando la vittoria agli uni, rese schiavi gli altri; e tra i vincitori, quello che era stato eletto capo e capitano, sotto la guida del quale avevano riportato la vittoria, continuò ad esercitare il potere sugli uni come sudditi fedeli e leali, sugli altri come schiavi. Allora la libertà piena e intera che ciascuno aveva avuto di vivere a proprio piacimento senza essere comandato da alcuno, si trasformò in servitù e fu completamente tolta ai vinti e fu diminuita ai vincitori in quanto prestavano obbedienza al loro capo sovrano; e chi non voleva cedere qualche cosa della sua libertà per vivere sottoposto alle leggi e al comando altrui, la perdeva del tutto. Così entrarono in uso le parole, prima sconosciute, di signore, servo del principe, suddito.

E’ancora Bodin che, proseguendo, conferma la sua adesione alla visione conflittualistica sulla nascita dello Stato:

La ragione e il lume naturale ci portano a credere che la forza e la violenza
hanno dato origine allo Stato.

L’idea che a generare lo Stato sia il conflitto tra più gruppi e che il gruppo più capace o forte ottenga di sottomettere e di governare quello più debole verrà ripresa ed apprezzata dai teorici del darwinismo sociale. Per essi, gli individui o i gruppi di individui che costituiscono le classi politiche e sociali dirigenti sono quei contendenti che attraverso la loro superiore abilità, adattabilità e capacità organizzativa hanno ottenuto la vittoria nel conflitto e assunto la leadership.
Anche la dottrina politica elitista - e primo fra tutti Mosca - accoglierà l’idea che a governare e ricoprire i posti di potere e di prestigio sia sempre una selezionata classe politica organizzata e colta, che governerebbe su una massa disorganizzata ed ignorante; e ciò avverrebbe anche nei presunti sistemi politici democratici (come dimostrerebbero la rappresentanza parlamentare e lo scarso ricorso a strumenti di democrazia diretta).
Così, pure il pensiero politico nazionalsocialista farà propria la teoria del conflitto, colorandola con tratti marcatamente razzisti. La propaganda del regime fondato da Hitler adatterà infatti questa teoria all'idea dell’Herrenvolk, ossia del popolo dominatore che, grazie alla propria superiorità biologica e culturale, ottiene di sottomettere e dominare il popolo inferiore.  Molti casi storici sono stati additati come esempio di supremazia dell’Herrenvolk sul popolo conquistato. Un esempio classico è quello di Sparta, ossia del popolo dei Dori invasori che sottomette la popolazione lacone preesistente, dando origine alla classe dominante degli spartiati e alla classe servile degli iloti. Oppure l’esempio degli Arii invasori dell’India che costituirono una società rigidamente gerarchica fondata sul sistema castale. Altro esempio ce lo offre la storia di Roma, con la contrapposizione tra patrizi, che sarebbero i discendenti dei Latini invasori, e dei plebei, che sarebbero invece discendenti della popolazione pre-indoeuropea. Altro esempio classico, riportato anche nell’Ivanhoe di Sir Walter Scott, è l’egemonia politico-culturale che i Normanni invasori dell’Inghilterra imposero alle popolazioni anglo-sassoni e celtiche dell’isola. Infine, il più celebre esempio è forse costituito dalle dominazioni coloniali europee; con esse, secondo la retorica nazionalsocialista, la razza ariana (bianca) si sarebbe fatta carico, per usare un’espressione di Rudyard Kipling, di quel “fardello” civilizzatore nei confronti delle popolazioni colonizzate, riscattandole dalla barbarie, dalla miseria e dalle superstizioni.
Infine, anche il pensiero politico marxiano aderisce alla visione conflittuale, vedendo nello Stato, come visto in precedenza, il luogo politico che legittima lo sfruttamento delle classi più deboli a beneficio dei profitti economici di quelle più potenti.
Accanto alla visione conflittuale abbiamo poi tutta una serie di filosofi che aderiscono alla visione consensuale, e che considerano l’ elemento determinante per la costituzione dello Stato il patto sociale.
Uno di questi, naturalmente, è Hobbes. Egli sostiene, come già in parte visto, che la costituzione dello Stato sia l’unico modo possibile per far cessare lo stato di guerra naturale. Detta costituzione non può avvenire attraverso un atto violento o un’imposizione; al contrario, il suo scopo è proprio quello di far cessare qualunque situazione di violenza tra individui. E’ dunque il consenso a fondare lo Stato. Ogni consociato lo esprime implicitamente nel momento stesso in cui accetta di vincolarsi alle clausole del patto sociale. Proprio come qualunque atto giuridico, il pactum societatis hobbesiano obbliga le parti firmatarie ad attenersi in buona fede alle sue disposizioni nel rispetto del brocardo pacta servanda sunt, ossia del mantenimento della parola data. Qui, poi, al contrario di quanto avviene in natura con le legge naturali, se le clausole del patto venissero travalicate interverrebbe un potere coercitivo superiore, che il patto stesso ha fatto nascere, che sanzionerebbe la trasgressione. Di questo potere è titolare chi detiene la sovranità, sia esso un unico uomo, come nella forma di governo monarchica, o un’assemblea, come in quella democratica.  
Ma per comprendere meglio tutto ciò vale la pena di riportare un fondamentale  passo del Leviatano:

L’unico modo di erigere un potere comune che possa essere in grado di difenderli dall'aggressione di stranieri e dai torti reciproci – perciò procurando loro sicurezza in guisa che grazie alla propria operosità e ai frutti della terra possano nutrirsi e vivere soddisfacentemente -, è quello di trasferire tutto il loro potere e tutta la loro forza a un solo uomo o a una sola assemblea di uomini (che, in base alla maggioranza delle voci, possa ridurre tutte le loro volontà a un’ unica volontà). Il che è quanto dire che si incarica un solo uomo o una sola assemblea di uomini di dar corpo alla loro persona; che ciascuno riconosce e ammette di essere l’autore di ogni azione compiuta, o fatta compiere, relativamente alle cose che concernono la pace e la sicurezza comune, da colui che dà corpo alla loro persona; e che con ciò sottomettono, ognuno di essi, le proprie volontà e i propri giudizi alla volontà e al giudizio di quest’ ultimo. Questo è più che consenso o concordia, è una reale unità di tutti loro in una sola e stessa persona, realizzata mediante il patto di ciascuno con tutti gli altri, in maniera tale che è come se ciascuno dicesse a ciascun altro: Do autorizzazione e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo, o a quest’assemblea di uomini, a questa condizione, che tu, nella stessa maniera, gli ceda il tuo diritto e ne autorizzi tutte le azioni. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una sola persona si chiama STATO, in latino CIVITAS. E’ questa la generazione di quel grande LEVIATANO, o piuttosto (per parlare con maggior rispetto) di quel dio mortale, al quale dobbiamo, sotto il Dio Immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti, grazie a questa autorità
datagli da ogni singolo uomo dello Stato, egli dispone di tanta potenza e di tanta forza a lui conferite, che col terrore da esse suscitato è in grado di modellare le volontà di tutti i singoli in funzione della pace, in patria, e dell’aiuto reciproco contro i nemici di fuori.

Baruch Spinoza
Per Spinoza, autore di chiare tendenze democratico-liberali, il patto istitutivo dello Stato avrebbe come unico scopo quello di trasferire i propri diritti naturali alla parte maggiore della società intera, della quale ora si diventerebbe componenti; ciò farebbe sì che gli individui restino uguali, come già avveniva allo stato di natura. In altri termini, perciò, il patto avrebbe il fine di ricreare uno stato naturale egualitario senza rischi di sopraffazioni, e dunque può solo istituire, nell'ottica spinoziana, una società sorretta dalla forma di governo democratica.
Anche Locke sostiene che lo Stato nasca per evitare la potenziale condizione di guerra naturale e che nasca, anche qui, per patto. Afferma infatti, il filosofo inglese:

Essendo gli uomini, come si è detto, tutti per natura liberi, eguali ed indipendenti, nessuno può essere tolto da questa condizione e assoggettato al potere politico di un altro senza il suo consenso. Il solo modo in cui un uomo si spoglia della sua libertà naturale e assume su di sé i vincoli della società civile, consiste nell'accordarsi con altri uomini per associarsi e unirsi in una comunità al fine di vivere gli uni con gli altri in comodità, sicurezza e pace, nel sicuro godimento della sua proprietà e con una maggiore protezione contro coloro che non vi appartengono. Questo può essere fatto da un gruppo di uomini poiché non viola la libertà di tutti gli altri, i quali sono lasciati tali e quali nella libertà dello stato di natura. Quando un gruppo di uomini ha così consentito a costituire una comunità o governo, essi sono con ciò immediatamente associati e costituiscono un solo corpo politico in cui la maggioranza ha il diritto di deliberare e decidere per il resto.

E sottolinea poco dopo l’idea che i firmatari del patto siano tenuti a rispettare la volontà della maggioranza dei consociati.
Infine Rousseau, l’autore del celebratissimo Contratto Sociale, considera la nascita dello Stato democratico come una conseguenza della stipulazione di un patto. Per il ginevrino il patto sociale dà soluzione al problema di trovare una forma di associazione che protegga e difenda con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato mediante la quale ognuno unendosi a tutti non obbedisca tuttavia che a se stesso o resti libero come prima. Il contenuto del patto sociale rousseauiano è descritto come segue:

Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi, come corpo, riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto.



Subito dopo Rousseau descrive gli effetti che da tale patto derivano:

Istantaneamente, quest’atto di associazione produce, al posto delle persone private dei singoli contraenti, un corpo morale e collettivo, composto di tanti membri quanti sono i voti dell’assemblea, che trae dal medesimo atto la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica, così formata dall'unione di tutte le altre, prendeva un tempo il nome di città, e prende oggi quello di repubblica o corpo politico, detto dai suoi membri Statoquand'è passivo, Sovranoquand'è attivo, Potenza, quando lo si considera in rapporto con altre simili unità politiche. Quanto agli associati, prendono collettivamente il nome di popolo, mentre, in particolare, si chiamano cittadini, in quanto partecipano dell’autorità sovrana, e sudditi, in quanto soggetti alle leggi dello Stato.

Un’ultima osservazione può essere fatta circa la fondamentale differenza tra il patto sociale hobbesiano e quello di Rousseau. Per Hobbes i consociati devono cedere il diritto di autogovernarsi al detentore del potere sovrano, sia esso un unico uomo o un’assemblea di persone, prestando ad esso completa obbedienza; per Rousseau, invece, “queste clausole [del patto] si riducono tutte ad una sola, cioè all'alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità”, ossia alla volontà generale della nazione. In un certo senso si può concludere il discorso affermando che Hobbes teorizzò il “Leviatano dei sudditi”, in cui ognuno è sottoposto ad un potere statuale assolutistico irresistibile, mentre Rousseau il “Leviatano dei cittadini”, ossia un tipo di Stato che Tocqueville considererebbe espressione di una “tirannide della maggioranza”.


Riferimenti bibliografici:

M. Rush, Politica e società, Bologna, Il Mulino, 2007.

Platone, Repubblica, Firenze, Vallecchi Editore, 1925.

Aristotele, Politica e Costituzione di Atene, Torino, UTET, 2006.

M. d’Addio, Storia delle Dottrine Politiche, Genova, ECIG, 2002.

L. Gambino, Brani di Classici del Pensiero Politico, Torino, Giappichelli, 2002.

T. Hobbes, Leviatano, Bari, Laterza, 2010.

J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, Milano, BUR, 2007.

J. J. Rousseau, Il Contratto Sociale, Bari, Laterza, 2006.















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