domenica 22 marzo 2015

L’arte della guerra secondo Clausewitz. Un breve resoconto. Parte I



Secondo quanto ritiene Carl von Clausewitz (1780-1831), il celebre generale e teorico militare prussiano autore del trattato “Della Guerra” (Vom Kriege), esistono due tipi distinti di guerra:  

-Guerra di abbattimento o di annientamento.
-Guerra limitata nello scopo e nei mezzi (circoscritta).

La prima ha lo scopo di annientare politicamente il nemico o semplicemente di disarmarlo e di costringerlo ad una pace a discrezione del vincitore; la seconda invece serve soltanto per conquiste ai confini del territorio nemico al fine di annetterle o di utilizzarle quali mezzi di scambio nel corso delle trattative di pace.
Allo stesso tempo, esistono anche due tipi diversi di pace:

- Pace dettata od imposta (unilaterale).
-Pace negoziata e contrattata (bi- o plurilaterale).

La prima presuppone una vittoria decisiva ma non necessariamente la scomparsa politica del nemico; al contrario, la seconda presuppone una vittoria o un andamento bellico non definitivi né risolutivi, ovvero la volontà di non impegnarsi in una guerra decisiva per imporre la pace.
Non si inizia nessuna guerra senza sapere cosa si voglia raggiungere mediante essa. Ed in ogni caso, la guerra va combattuta tenendo sempre presente il tipo di pace cui si mira: invero, più importante della vittoria è saper sfruttare la vittoria.
Carl von Clausewitz
Circa la differenza tra strategia e tattica, la prima rientra in senso lato nella sfera più propriamente politica di uno Stato, ricomprendendo quindi non solo considerazioni squisitamente militari, laddove la tattica attiene esclusivamente alla condotta militare della guerra, descrivendo il tipo di tecnica militare che si utilizza nel corso di una battaglia. E’ altresì importante rilevare che la strategia può indicare una campagna militare nel suo complesso, mentre la tattica in generale descrive più piccoli dettagli all’interno della campagna stessa (una battaglia, una scaramuccia, un inseguimento, una ricognizione, ecc.).
Per Clausewitz, la violenza fisica è il mezzo, laddove l’imposizione della volontà è lo scopo della guerra (se non v’è scopo, non v’è mezzo). Ne deriva che ogni guerra inizia poiché esiste uno scopo che si vuole ottenere con essa.
Il logoramento, che rappresenta il consumo graduale delle forza armate avversarie, può essere sfruttato da una condizione difensiva (negativa): non ha senso ai fini dell’economia di guerra infatti per l’attaccante logorare il nemico attivamente (condizione aggressiva positiva), ma è meglio che il nemico si logori per fattori oggettivi che non sprechino le nostre proprie forze, come le condizioni climatiche, l’isolamento dalle sue linee di comunicazione, ecc.
Se un difensore risulta essere un bravo difensore comincerà la battaglia, o la guerra, in condizioni di difesa e le finirà in veste di attaccante, ribaltando la situazione a suo vantaggio. Sebbene è molto facile che da una situazione di conflitto politico-territoriale possa sorgere una guerra di annientamento, in verità è molto più ricorrente e facile che ne derivi una semplice guerra circoscritta nello spazio e nel tempo. Una guerra di annientamento, comunque, prevede sempre un riassetto geopolitico degli Stati, una guerra circoscritta (anche se in essa si sono combattute battaglie d’annientamento decisive) generalmente no.
Ma che cosa è la guerra? Per Clausewitz la guerra costituisce niente più che un duello più esteso. Più specificamente, la guerra, che ha lo scopo più immediato di rendere incapace l’avversario di ogni ulteriore resistenza abbattendola, è un atto di violenza per costringere l’avversario a eseguire la nostra volontà. Se quindi scomponiamo le parole chiave dell’essenza della guerra vediamo che essa presuppone la violenza, ossia una qualche forma più o meno accentuata di coercizione fisica e psicologica, e l’annichilimento della volontà dell’avversario, ossia la distruzione della volontà di tensione ostile del nemico nei nostri confronti e la sua sostituzione con la nostra volontà, che va ad imporre un obbligo di sottomissione. E per quanto riguarda il vero obiettivo dell’azione bellica, esso consiste nel disarmo del nemico.
Per quanto riguarda invece la conduzione della guerra, occorre distinguere tra quella posta in essere dai popoli civili e dai popoli selvaggi. I popoli civili, che sono mossi dall’intelligenza, combattono una guerra spinti da intenzioni intelligenti (scopo intelligente), dunque sono mossi da intenzioni ostili giustificabili dal punto di vista razionale. Al contrario, i popoli selvaggi combattono per puro spirito emotivo, dunque senza scopo, ossia per un mero sentimento ostile innato e spurio, fine a se stesso e improduttivo (scopo emotivo). Ne deriva che i popoli civili possono raggiungere obiettivi maggiori a spese minori, concentrandosi a minimizzare le perdite umane e di massimizzare il profitto finale del conflitto. Le guerre più intelligenti sono quelle che si vincono con il minore spargimento di sangue possibile, sia proprio che avversario, e tuttavia raggiungendo lo scopo maggiore che ci si prefiggeva allo scoppio del conflitto. Nell’antica arte militare la battaglia più intelligente e risolutiva era quella che si faceva esclusivamente manovrando, senza bisogno di ingaggiare il combattimento: la vittoria d’astuzia, che economizzava il fattore perdite umane, prevedeva il riposizionamento dell’esercito in posizioni di vantaggio attraverso il mero consumo dei tacchi degli stivali, senza spargimento di sangue ma con il nemico obbligato ad arrendersi. Come si poteva giungere alla vittoria d’astuzia? Spostando celermente il proprio esercito e accerchiando quello avversario con movimenti imprevisti ed immodificabili (per un esempio concreto, basti, per tutti, la conduzione napoleonica della battaglia di Ulma nell’ottobre 1805).
Capitolazione del generale Mack a Ulma (ottobre 1805)
Per eliminare l’avversario, ossia per disarmarlo (disarmo = liquidazione dell’avversario), occorre commisurare i propri mezzi disponibili bellici e forza di volontà/morale delle nostre truppe con gli stessi parametri di cui dispone l’avversario. La guerra vede sempre opposte due forze armate (tre o più fazioni in armi tra loro vi possono tuttavia essere in caso di guerra civile, ma non è escluso che si possano coalizzare tra loro, trasformandosi in due), ossia attaccante e difensore: ad esse poi si collegheranno le forza armate alleate delle rispettive coalizioni. Nella storia della guerra non si è mai registrato il caso di uno scenario in cui di tutte le potenze lottassero contro tutte, invece è sempre ricorso il caso di coalizioni che, sebbene in combattimento su diversi fronti, facevano sempre riferimento ad una sola coalizione, lega od intesa (e ciò, naturalmente senza che Clausewitz potesse prevederlo, sarebbe valso anche per i due conflitti mondiali). L’esigenza di costituire una coalizione o intesa nasce dalla semplice costatazione matematica per la quale l’” unione fa la forza, la divisione la debolezza” e dunque è naturale cercare di far valere i propri interessi congiuntamente anziché isolatamente. In generale, poi, quando si considerano le forza armate in combattimento in una guerra, soprattutto nel caso di guerra totale, esse non vanno circoscritte soltanto all’esercito regolare, ma comprendono altresì il popoli (tanto più in caso di coscrizione obbligatoria), lo Stato (ossia l’apparato politico-burocratico) e la nazione geografica; ecco perché quando si parla di popolo in armi bisogna espanderne il più possibile l’accezione, nel senso di includerne la geografia fisica, la geografia politica, lo spirito del popolo, la razza del popolo, il sistema dei valori morali, religiosi e politici.                          
La storia insegna che contro un nemico comune è sempre meglio unirsi in lotta, superando le eventuali particolaristiche rivalità in vista del bene comune e per sconfiggere insieme il male peggiore. Ciò non esclude che quando si sia sconfitto il nemico comune si possa tornare nella disunione a combattersi reciprocamente in modo particolaristico. Pensiamo ad esempio ai greci, che si unirono per sconfiggere i persiani invasori nel 490 a.C. e 480-479 a.C. salvo poi scindersi in due leghe, quella che faceva capo ad Atene e quella che faceva capo a Sparta, per combattersi tra loro nella guerra del Peloponneso (431-404 a.C.). Oppure pensiamo al caso dei galli, molti dei quali si unirono a Giulio Cesare per sconfiggere Ariovisto e i suoi germani, salvo poi scivolare via dall’alleanza romana per combattere con gli altri galli contro Cesare nel corso della guerra di Gallia (58-51 a.C.). La vittoria di una coalizione comporta la sconfitta dell’altra: non vi possono essere mai due vittorie, ma al massimo soltanto due pareggi. Ad esempio, la battaglia della Moscova (battaglia di Borodino) del settembre 1812 rappresenta un caso di pareggio, anche se si può considerare una quasi-vittoria di Napoleone.  La guerra di difesa prevede in genere un numero di uomini di esiguo, o comunque meno rilevante, rispetto alla guerra d’aggressione. Concretamente parlando, se per difendersi da un attaccante si deve possedere un certo numero di soldati, per attaccare occorre avere un numero di soldati sufficiente per la difesa del proprio territorio e in più per attaccare il nemico. Dunque se si attacca bisogna essere certi di essere nelle condizioni di poter attaccare, tenendo conto ance delle truppe di riserva; bisogna anche avere la sicurezza che l’attacco, qualora fallisca, non incida negativamente sulla necessità di difesa del proprio paese. Ciononostante, la guerra, per quanto la si possa a ridurre a calcoli matematici, è sempre pregna di eventi imprevedibili, fortunati, casuali, inaspettati, impensabili e il calibro del genio si misura nella sua capacità di sfruttarli a suo vantaggio.
Vi sono tre regole fondamentali che vanno rispettate se si voglia garantire la vittoria della campagna militare: 

-Le forze armate del nemico vanno messe nelle condizioni di non poter proseguire la lotta (cioè vanno disarmate).
-Lo Stato del nemico deve essere temporaneamente occupato per assicurarsi che non addestri nuove truppe.
-La volontà del nemico (tanto del suo Governo che di quello dei suoi alleati) va indotta alla sottomissione e alla pace.

Addivenendo alla pace, qualora essa sia giusta e proporzionata al tenore della guerra, la resistenza dovrebbe venire meno, soprattutto nel caso in cui l’élite politica convinca il suo popolo ad accettare l’accordo.
Per quanto riguarda il logoramento del nemico, di cui già si è accennato, occorre sottolineare che, tanto in una battaglia che in una campagna, esso consiste nell’esaurimento progressivo delle forze fisiche e della volontà nemiche prodotto dalla durata dell’azione. La resistenza, che è uno degli strumenti (oltre, ad esempio, alla guerriglia, o, in battaglia, alla tattica del “mordi e fuggi”) per attuare il logoramento, deve produrre la distruzione delle forze del nemico a tal punto da costringerlo a rinunciare al suo intento bellico.    
Al fine di ottenere la vittoria, ossia di imporre la nostra volontà su quella del nemico, si può ricorrere a diversi espedienti politico-militari:

-Annientare le forze nemiche.
-Conquistare le province del nemico.
-Invadere ed occupare temporaneamente le province del nemico.
-Porre in essere atti politico-diplomatici quali anche ricatti e minacce.
-Attendere passivamente l’urto nemico per poi sfruttare i vantaggi della condizione bellica difensiva. 
-Porre in essere le tattiche di logoramento quali la resistenza (attiva o passiva), la guerriglia, la tensione psicologica ostile verso l’occupante, ecc.

E’ chiaro però che nonostante tutti i mezzi e gli espedienti utilizzati, è sempre la lotta ad essere alla base della guerra, poiché tutto, nello stato di guerra, soggiace alla legge suprema della decisione delle armi e all’ordalia del combattimento. Senonché, fanno parte della guerra, o meglio della conduzione della guerra, oltre che il combattimento altri elementi quali: il reclutamento, l’armamento, l’equipaggiamento, l’esercitazione, l’apprestamento dell’artiglieria, l’arte delle fortificazioni.     

Riferimenti bibliografici:


C. von Clausewitz, Della Guerra.                  

mercoledì 18 marzo 2015

Merit and meritocracy. Philosophic and political considerations



Merit”, to define it, is the element that makes a person worthy of respect, consideration and reward. It flows as a spontaneous feeling in the human soul when our intellect detects in another human being the execution of admirable and complex action, or the conception of an idea of intellectual, moral and psychological high value. Therefore, a “person worthy of merit” is the one that, for its own particular conduct, for talented inclinations or for socially valuable qualities spreads around him an aura of gratitude, esteem, efficiency, capacity and respect.
In addition, “meritocracy” refers to a particular form of government and management of public affairs in which the official positions are distributed according to merit and not because of other considerations such as birth or richness. Those who are in favor of a meritocratic society believe that meritocracy is fair and helpful as it would guarantee an end to discrimination based on arbitrary standards such as sex, race, social and economic relations, and so on. Instead, those who oppose it accuse the meritocratic society to turn into a despotic society because of the monopoly of power that an elite class would ensure for itself at the top of the State, deciding to perpetuate its social status and privileges and thus marginalizing the weight of the governed.
Old Calvinist temple in Lyon
Historically speaking, the Western and European societies of the modern age that used to be particularly meritocratic were those supported by a Protestant religion, especially those that were Calvinist or closely related to Calvinist theology. In them, the distinguishing individualism would become an incentive to excel over other members of the community thanks to the morality and sanctification attributed to work and to honest workers. The sociologist Max Weber in his surveyThe Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism” (Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, 1905) acutely interrelated Protestant ethic, work, capitalist production and ultimately merit and success, considering them all as interlocked. In fact, it is not negligible the impact of religion on the establishment of a society based on moral and spiritual qualities of its members: a Protestant society (especially if Calvinist or Methodist) will come to consider in an eschatological-theological point of view work as a factor of justification and salvation and idleness as a potential tool for eternal damnation.
John Locke, the father of modern liberalism, argued in his "Second Treatise of Government" that work, or rather merit in working, was the factor that legitimated private property.
Likewise, Thomas Jefferson in the Declaration of Independence of the United States (1776), echoing Locke’s ideas, helped to forge the nascent American society on the principles of meritocracy.  He considered a typical cliché of Enlightenment that considered republican and representative societies as naturally more inclined to accept the virtues of industriousness; on the contrary, the monarchical and aristocratic societies – that the Enlightenment supposed to be unjust – exemplified a fertile ground for the spread of laziness and ineptitude, like in the case of the inheritance of crucial public offices.
Indeed, a very sharp ideological and political splintering exists between the Ancien Régime and the post-revolutionary society: the former founded its existence and legitimacy on hereditary and blood ties, whilst the latter supported the particular capacities of individuals regardless of considerations not linked to these very capacities.
Prussian Pour le Mérite Order medal

Frederick II the Great, King of Prussia, an enlightened ruler, both a philosopher and a reformer, was the creator of a military “Order for Merit”, that was to be conferred to the troops that deserved an acknowledgment for their brilliant martial conduct on the battlefield. Later, this Prussian model inspired Napoleon Bonaparte, the utmost meritocratic leader, when he instituted the Legion of Honor, another military Order of Merit, which admitted (and still admits) people belonging to any social class that distinguished themselves both in civil or military matters. The organization of the Napoleonic Grande Armée embodied the example of a war machine born to promote merit and talent. Both the higher ranks of the officer corps and the simple conscript soldiers in the army’s ranks could achieve high honors if recognized as worthy. The great Corsican general himself admitted in a famous sentence that each soldier of his army could potentially bear in his backpack a marshal's baton.
Moreover, fascist societies like Hitler’s Germany or Mussolini’s Italy represented one of the most ambitious attempts to transform a State into a completely meritocratic society. This project was visible in almost every aspect of public life (and often private) that the fascist governments wished to take care of, from competitive sports to the exaltation of the brave soldier and the fertility of women. Even Marxism, contrary to what some may think, did not oppose to meritocracy, basing its ideology on the idea of having to deliver to each one what was its own. For example, if a doctor had a son who was good at cultivating the land, it was right that he became a farmer; at the same time, if a farmer had a son with inclinations for medicine and healing, it was right that he studied to become a doctor. This Marxist version of meritocracy can already be detected in Plato’s idea of natural justice, according to which justice consisted in the fact that everyone should do what nature made him able to do and did not do the other: this principle is likewise traceable in the Parable of the talents of the Gospel.
Allegory of the plutocratic capitalistic system

Meritocracy bases itself on three principles of government:

1) The allocation of labor and public offices is distributed by merit, and not by age, experience, loyalty or birth.

2) Work, effort and sacrifice are conceived as a source of honor (as stated in the Latin motto: "Per aspera ad astra").

3) Rewarding hard work and punishing disappointing performances are key factors and motivating elements of the system.

Undoubtedly, meritocratic societies represent an incentive to compete and an encouragement to confrontation: accordingly, some wanted to consider this kind of society as very close to the collective implications of the doctrine of social Darwinism.
Furthermore, it is interesting to point out the differences between a meritocratic society and a plutocratic. In the first, all citizens start at the same conditions of equality and only later distinguish themselves due to their personal qualities, whereas in the second, the power and social prestige relies on the economic capacity of citizens, not on their inner quality.
To conclude, we would like to raise a question: if merit directly depends on personal qualities like intelligence, application, flexibility, initiative, self-sacrifice, etc., how can we qualify in absolute terms which individuals deserve to be considered worthy of merit? In other words, how can we measure intelligence? Are all intelligences equal? If the answer cannot be easily answered then probably the concept of merit is not as categorically absolute as we may believe, and thus its social relevance should be resized.


References:

Plato, The Republic.

J. Locke, Two Treatises of Government.

M. Weber, The Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism

domenica 15 marzo 2015

L’avanzata verso l’abisso: la formazione della Triplice Intesa e il suo ruolo nello scoppio del Primo conflitto mondiale






Al termine dell’epopea napoleonica la Gran Bretagna già si caratterizzava per essere una grande potenza coloniale. Dopo il 1815, infatti, al suo vasto impero ultramarino, che ricomprendeva Canada, Giamaica, isole minori dei Caraibi, Nuova Olanda (Australia), Nuova Zelanda, Gibilterra e, soprattutto, gran parte dell’India – che a metà dell’’800, dopo la sconfitta dei ribelli sepoys, sarebbe divenuta un dominio diretto della Corona, sottratta quindi al controllo della Compagnia delle Indie orientali – si aggiunsero nuovi possedimenti, tra cui l’isola di Malta – fondamentale tessera del mosaico raffigurante il controllo strategico britannico del Mediterraneo insieme a Gibilterra e, dal 1878, Cipro, e quindi la garanzia di linee di comunicazione più difendibili che connettessero la madrepatria con le Indie – e la Colonia del Capo, già dominio olandese, con il possesso della quale la Gran Bretagna dava avvio a quell'espansione coloniale africana che le avrebbe consentito, nell’arco di un secolo, di dominare il continente nero “dal Cairo al Capo”, come gli imperialisti inglesi amavano motteggiare. Si erano così gettate le basi per un dominio britannico mondiale, un dominio che si sorreggeva sull’incontrastata superiorità navale della Royal Navy e sulla straordinaria forza commerciale ed industriale che la Gran Bretagna poteva sviluppare, e che presto le avrebbe conferito da parte delle potenze concorrenti il titolo dispregiativo di “perfida Albione”. E nel proseguo del secolo, questo impulso coloniale non fece che accentuarsi. Sfruttando il periodo di relativa calma – se si eccettuano i moti nazionali e rivoluzionari – di cui godette l’Europa da quando Metternich aveva instaurato e consolidato l’assetto politico posteriore al Congresso di Vienna, reso concretamente effettivo dalla Quadruplice Alleanza e dal Concerto d’Europa, la Gran Bretagna poté continuare la propria ascesa coloniale. Se si eccettuano le grandi crisi che coinvolsero direttamente il Regno Unito in ambito europeo, ossia la questione degli Stretti, con i suoi corollari della guerra di Crimea (1853-56) e della guerra russo-turca (1877-78) e la questione d’Oriente, ossia la problematica relativa alle sorti del decadente Impero ottomano – che la Gran Bretagna aveva interesse a far sopravvivere come baluardo contro l’espansionismo russo verso il Mediterraneo ed il Vicino Oriente –, l’Inghilterra fu impegnata soprattutto in ambito extraeuropeo. Concretamente parlando, alla vigilia della Prima guerra mondiale, i domini coloniali britannici si erano espansi fino a ricomprendere, attraverso un controllo diretto o più o meno indiretto, tutto il subcontinente indiano, metà Indocina, alcune enclave cinesi quali Hong Kong, circa tre quinti dell’Africa e varie regioni costiere della penisola arabica. Nonostante gli innegabili successi, è chiaro però che quest’espansionismo britannico andava a contrastare con gli interessi di altre due grandi potenze imperiali confinarie: la Francia e la Russia. Ciononostante, sarà proprio con Francia e Gran Bretagna che la Gran Bretagna andrà a concludere una delle più celebri alleanze informali di tutta la storia contemporanea, nota appunto come Triplice Intesa, e che porterà i tre paesi a scendere in campo insieme, per la prima volta, nel 1914.
Manifesto di propaganda autarchica dell'Impero britannico
Per quanto attiene la Francia, se si eccettua il suo ruolo in India, dov’era stata completamente scalzata dall’Inghilterra, gli scacchieri di maggiore frizione con i britannici erano da ritrovare in Africa ed Indocina. La prima colonia francese in Africa fu l’Algeria, conquistata nel 1830; da lì, l’attenzione dei francesi si spostò verso gli altri territori nordafricani di Marocco, Tunisia, Libia ed Egitto. E tuttavia, dal 1882 in un paese come l’Egitto, solo formalmente sotto sovranità ottomana, la Gran Bretagna aveva sfruttato le rivalità turco-egiziane per imporre un khedivè ad essa politicamente vicino, instaurando di fatto un protettorato. La Francia fu quindi costretta a ridurre i suoi interessi verso l’Egitto, puntando sull’espansione verso le altre aree del Maghreb, dove, nel lungo termine, i suoi interessi si sarebbero scontrati con quelli della Spagna e, soprattutto, dell’Italia: la Tunisia, ad esempio, era un paese sopra cui il giovane regno italiano reclamava una chiara influenza. Sennonché, fu proprio in Tunisia, e successivamente in Marocco, che l’espansione coloniale francese si attestò e consolidò. A proposito dell’Indocina, invece, anche qui le potenze di Gran Bretagna e Francia si trovavano a doversi confrontare lunga una comune direttrice d’espansione. Per appianare le rivalità coloniali, le due potenze decisero di affermare il loro dominio su aree indocinesi ben distinte: la Gran Bretagna si stanziò, penetrando dal Bengala, in Birmania e Malesia, mentre la Francia in Cocincina, Annam, Tonchino, Laos e Cambogia; il Siam, unico Stato indocinese a conservare la propria indipendenza e sovranità, venne sfruttato come cuscinetto tra i due domini coloniali; infine, più a meridione era l’arcipelago indonesiano, sotto sovranità olandese.
Se però la risoluzione delle dispute coloniali franco-britanniche si era svolta in maniera tutto sommato cordiale e diplomatica, le rivalità anglo-russe in scacchieri euroasiatici di interesse strategico globale rendevano i rapporti tra questi due imperi ben più tesi. Le regioni in cui le rivalità anglo-russe emergevano con maggiore enfasi erano l’Asia Centrale, il Caucaso e l’area anatolico-balcanica. Le ragioni erano chiare. Da sempre l’Impero russo soffriva di un serio problema geografico: l’Oceano artico di inverno si congelava, rendendovi impossibile il transito per le navi; da qui sorse l’esigenza russa di espandersi verso sud alla ricerca dei mari caldi, fossero essi il Mar Mediterraneo o il Mar Nero in Occidente o il Mar Giallo in Oriente, e ciò al fine di poter introdurre le proprie mercanzie, o quelle importate, nelle principali rotte commerciali marittime mondiali. L’espansione verso i mari caldi, almeno a valere per l’Occidente, portò la Russia a scontrarsi naturalmente con la Gran Bretagna, la quale vedeva, a torto o a ragione, una penetrazione russa nel Mediterraneo come un concreto pericolo per le rotte e linee di comunicazione verso il Raj indiano. In ragione di ciò, l’Inghilterra si era fatta garante, nel corso dell’’800, dell’ormai decadente Impero ottomano, considerando un suo sfaldamento completo, specie nei Balcani e in Armenia, come un’innegabile vittoria geopolitica della Russia. In altre parole, l’Impero zarista doveva essere contenuto entro i limiti angusti del Mar Nero, che, con la Pace di Parigi del 1856, era stato opportunamente smilitarizzato. L’altra area, poi, in cui gli interessi anglo-russi confliggevano era quella asiatico-centrale. Nel corso del XIX secolo, la Russia si era espansa in Asia senza sosta, inglobando nell’impero le vaste regioni del Caucaso e del Turkestan, annettendone in quest’ultima i vari khanati (si pensi a Khiva, Khokand, Bukhara). Ovviamente la Gran Bretagna vedeva con pericolo crescente questa rapida discesa russa verso il sud del continente asiatico, soprattutto nel momento in cui a separare i due imperi russo e britannico restavano solo la Persia e l’Afghanistan. Per buona parte del secolo fu proprio in quest’ultimo paese che russi e britannici si scontrarono indirettamente, al fine di ottenere il controllo del cosiddetto crocevia dell’Asia: questo scontro diplomatico, irregolare, segreto divenne poi noto come Grande Gioco o Torneo delle Ombre. Anche qui, però, fu la Gran Bretagna ad ottenere, in prospettiva, i successi maggiori, rendendo all’inizio del XX secolo l’Afghanistan un paese di propria preponderante influenza.
Allegoria della Triplice Intesa
E’ dunque alla luce di questa premessa che, nonostante le reciproche rivalità coloniali, Francia, Gran Bretagna e Russia decisero di concretizzare quella serie di accordi che poi porterà il nome di Triplice Intesa. Invero, alla base della Triplice Intesa vi sono tre elementi fondamentali:

1)      L’Alleanza franco-russa o Duplice Intesa: Durante l’ultima decade dell’’800, Francia e Russia operarono un graduale riavvicinamento diplomatico, culminato in un’alleanza militare ed economica, che si concretizzò in un patto militare difensivo franco-russo che si definì fra il 1891 e il 1894 in tre fasi. Essa rappresentava una risposta al rinnovo della Triplice Alleanza e, stante la neutralità della Gran Bretagna, un tentativo di formare un equilibrio strategico in Europa. L'alleanza si basò principalmente sul vantaggio territoriale nel contrastare da Oriente ed Occidente le nazioni firmatarie della Triplice Alleanza e sulla necessità della Russia di ricevere un sostegno economico: i due paesi, infatti, sebbene profondamente divisi sotto il punto di vista ideologico trovarono motivo di accordo nella decisione dei francesi di accettare la richiesta russa di ingenti investimenti verso l'Impero zarista, aiuti che erano stati rifiutati dal kaiser tedesco e che servirono alla Russia per avviare uno sviluppo industriale sul modello occidentale e per completare la costruzione della ferrovia Transiberiana. L'alleanza economica divenne presto anche militare per contrastare il pericolo strategico rappresentato dall'aggressività della Germania guglielmina. Tale alleanza rappresentava quel pericolo di accerchiamento dal quale Bismarck aveva sempre cercato di proteggere la Germania.

2)      L’Intesa franco-britannica o Entente Cordiale: Con essa ci si riferisce all’accordo stipulato a Londra l'8 aprile 1904 tra Francia e Gran Bretagna per il reciproco riconoscimento di sfere d’influenza coloniale. L’accordo fu raggiunto anche in virtù del superamento della crisi dell’incidente coloniale di Fashoda del 1898. Principalmente il trattato definì l’influenza francese sul Marocco e l’influenza inglese sull’Egitto e segnò la fine dello storico contrasto tra Francia e Gran Bretagna, nonché una prima risposta al riarmo navale della Germania.

3)      L'Accordo anglo-russo per l'Asia o Entente anglo-russa: Firmato a San Pietroburgo il 31 agosto 1907 da Gran Bretagna e Russia, esso sanciva il reciproco riconoscimento delle sfere d'influenza coloniale in Asia, risolvendo gli eventuali contrasti lungo tre linee di espansione principali dell'Impero russo, ossia Persia, Afghanistan e Tibet. Alla Gran Bretagna era riconosciuta la preponderante influenza in Afghanistan; la Persia veniva divisa in tre aree di influenza distinte: la parte meridionale all'Inghilterra, quella settentrionale alla Russia ed una centrale neutrale; veniva poi formalmente rispettata l'integrità territoriale del Tibet, anche se il paese fu comunque suddiviso in rispettive zone di influenza. Anche in questo caso l’accordo fu una risposta al riarmo della Germania e segnò la fine dei contrasti coloniali anglo-russi.

Le disposizioni dell'Entente anglo-russa relative alla Persia

La Triplice Intesa, così costituita, aveva per scopo quello di contrastare le potenziali pericolosità della Triplice Alleanza austro-tedesco-italiana. La sua natura e portata, invero, possono essere comprese solo se si tiene conto del fatto che le tre potenze temevano l’ascesa della Germania quale potenza mondiale rivale. Dopo l’unificazione del 1871 – che era costata ben tre guerre –, il cancelliere Bismarck aveva deciso di sostituire la sua politica del “ferro e del sangue” con una sottile strategia diplomatica che si basava su due assunti: l’isolamento politico-diplomatico della Francia e la neutralizzazione delle rivalità austro-russe nei Balcani. Per quanto riguarda l’isolamento francese, esso era possibile soltanto a due condizioni: che la Francia non si alleasse con la Russia, scongiurando così il pericolo dell’accerchiamento tedesco, e che l’Austria-Ungheria e la Russia mantenessero per quanto possibile dei buoni rapporti affinché non scivolassero nella tentazione di avvicinarsi alla Francia. Per attuare questa politica Bismarck aveva concluso in successione vari accordi con l’Impero austro-ungarico e russo, tra cui le due celebri Dreikaserbund; inoltre, nel 1882, la Germania aveva concluso con l’Austria-Ungheria e l’Italia la Triplice Alleanza, che si configurava come un’alleanza difensiva che ledeva, almeno a valere per il Nord Africa, gli interessi coloniali francesi, concedendo agli italiani una maggiora libertà d’azione in territori come la Tunisia, sotto influenza o dominio francese; infine, anche il Trattato di Controassicurazione tra Germania e Russia del 1887 aveva ulteriormente scongiurato un futuro avvicinamento franco-russo.

Lo schieramento degli Imperi Centrali nel Primo conflitto mondiale

Tuttavia, le cose cambiarono allorché il kaiser Guglielmo II, allontanando Bismarck dalla Cancelleria del II Reich, collocò al governo uomini poco inclini a conservare il sistema internazionale bismarckiano: la conseguenza fu che, allo scadere del Trattato di Controassicurazione con la Russia, la Germania preferì non rinnovarlo. Ciò fece sì che lo zar, superando le sue diffidenze ideologiche circa il regime repubblicano francese, decise di avvicinarsi alla Francia. Questo allontanamento della Russia dalla Germania avrebbe contribuito a legare i paesi della futura Triplice Intesa nella comune coalizione che avrebbe combattuto contro gli Imperi centrali durante la Grande Guerra.
Caricatura dello smembramento dell'Impero ottomano
In relazione agli interessi extraeuropei, la Triplice Intesa aveva lo scopo di contrastare i piani d’espansione coloniale delle controparti della Triplice Alleanza. Eccettuando l’Austria-Ungheria, potenza priva di vocazione coloniale, tanto Germania che Italia, superato il periodo di iniziale assestamento post-unitario, avevano entrambe voluto lanciarsi nell’avventura coloniale. La Germania, superati gli scetticismi di Bismarck in materia coloniale, aveva abbracciato l’idea di una Weltpolitik che le consentisse di ottenere un peso sufficiente negli affari coloniali mondiali (come d’altronde già la Conferenza di Berlino del 1884-85 aveva dimostrato). La conseguenza fu che l’Impero tedesco ottenne il controllo di alcuni territori africani (Namibia, Tanganica, Togo, Camerun), oceanico-pacifici e cinesi. Questo nuovo peso internazionale della Germania, che, come tutti i poteri internazionali, doveva sostenersi sulla potenza della flotta, si configurava come una minaccia enorme al predominio marittimo inglese. Al contempo, l’Italia, dopo aver conquistato parte della Somalia e dell’Eritrea, e dopo aver tentato invano la conquista dell’Etiopia (la sconfitta militare di Adua nel 1896 aveva infatti segnato il momentaneo arresto della penetrazione italiana in Abissinia), guardava con interesse maggiore alle coste nordafricane, in particolare alla Tunisia e alla Tripolitania, dove però la Francia non avrebbe accettato una simile concorrenza. Inoltre, i legami della Germania con la Turchia (si pensi al progetto di costruzione della ferrovia Berlino-Baghdad) e l’accondiscendenza tedesca per un’influenza principalmente austro-ungarica nei Balcani – area dove l’Impero russo aveva nuovamente poggiato lo sguardo dopo che la sconfitta con il Giappone del 1905 gli aveva precluso un’ulteriore possibilità di espansione in Estremo Oriente – facevano considerare sostanzialmente auspicabile alla Russia un’alleanza contro il blocco delle potenze germaniche mitteleuropee e come un’opportunità per rimpiazzare l’influenza austriaca nei Balcani, resa più forte dall’annessione asburgica della Bosnia-Erzegovina nel 1908 (già agli inizi del ‘900 in Serbia il governo filo-austriaco era stato sostituito con uno filo-russo); inoltre, la Russia intravedeva l’opportunità di porre fine al domino ottomano sugli Stretti e di liberare una volta per tutta gli ortodossi dei Balcani dal giogo musulmano turco.      
Celebre poster inglese della Prima guerra mondiale
raffigurante Lord Kitchener
In conclusione, l’ascesa di Germania e Italia al rango di potenze e il loro ruolo attivo nel processo di colonizzazione avevano fatto sì che le potenze coloniali storiche di Gran Bretagna e Francia risolvessero le loro questioni imperiali sospese con la conclusione dell’Entente Cordiale del 1904. Al contempo, gli interessi geopolitici della Russia nei Balcani e in Anatolia, specie ora che il Trattato di Controassicurazione non era stato rinnovato, indussero lo zar ad optare per un ribaltamento del fronte delle alleanze, concludendo la Duplice Intesa con la Francia e l’Accordo per l’Asia con la Gran Bretagna. Con gli schieramenti così definiti, ossia con l’Europa divisa tra due Triplici, il mondo si preparava a scendere in campo, nel 1914, in una delle più sanguinose guerra che l’umanità abbia mai avuto modo di conoscere.






Riferimenti bibliografici:

Albrecht - Carrié, R., Storia diplomatica d’Europa, 1815-1968.

Ferguson, N., Impero. Come la Gran Bretagna ha fatto il mondo moderno.


Hopkirk, P., Il Grande Gioco. I servizi segreti in Asia centrale.

sabato 14 marzo 2015

Götterdämmerung. I vani tentativi di frenare il revisionismo nazista tra le due guerre mondiali



In seguito alla sconfitta nella Prima guerra mondiale, alla conferenza di pace, la Germania era stata costretta a pagare un conto salato. Il Trattato di Versailles da un lato la ridimensionò territorialmente, facendole perdere i possedimenti dell’Alsazia e della Lorena a vantaggio della Francia, e quelli di Prussia occidentale, Posnania ed Alta Slesia a vantaggio della rinata Polonia; dall’altro, considerandola responsabile dello scoppio del conflitto, le impose la corresponsione di una cifra da definire a titolo di riparazioni di guerra, l’occupazione del territorio renano a garanzia del versamento della stessa e la riduzione sostanziale delle sue forze armate. Le disposizioni del trattato di pace, considerate sotto molti punti di vista inique da una vasta parte dell’opinione pubblica tedesca, alimentarono un acceso spirito di revanscismo, soprattutto negli ambienti politici di orientamento maggiormente nazionalista e conservatore.
Le perdite territoriali tedesche sancite dal Trattato di Versailles
Alla Conferenza di Locarno del 1925 le potenze europee erano riuscite a stabilizzare e regolamentare i confini tedesco-occidentali. In quell’occasione, dei sette accordi conclusi, uno era l’accordo franco-tedesco, che stabiliva il mutuo rispetto delle frontiere franco-tedesche e belga-tedesche e che prevedeva il ruolo di Italia e Gran Bretagna quali potenze garanti, che sarebbero intervenute nel caso in cui la Germania, violando l’accordo, fosse penetrata nella zona smilitarizzata della Renania; un altro era il trattato di alleanza difensiva franco-polacco; un altro ancora il trattato di alleanza franco-cecoslovacco. Quantunque silenziose circa le specifiche disposizioni riguardanti i confini tedesco-orientali, le clausole degli Accordi di Locarno pareva avessero impedito sul nascere qualunque tentativo di revisionismo territoriale della Germania.  
Nella seconda metà degli anni ’20, la Germania tentò di ravvicinarsi all’Unione Sovietica, concludendo in tal senso, nel 1926, il Trattato di Berlino, un accordo di amicizia e neutralità che prevedeva che qualora una parte firmataria fosse stata oggetto di un’aggressione da parte di una terza parte, l’altra parte firmataria avrebbe mantenuto la neutralità, e che i firmatari si impegnavano a non aderire ad una coalizione che fosse contraria agli interessi dell’altro contraente. In questo periodo, inoltre, la maggioranza delle forze politiche austriache era favorevole all’Anschluß, ossia all’annessione con la Germania. Tale aspirazione sembrò trovare una prima tappa di realizzazione nel cosiddetto progetto Curtius-Schober del 1930, ad ogni modo non realizzato, che prevedeva un tentativo di assimilazione dell’Austria alla Germania mediante misure di natura commerciale e doganale. Il progetto Curtius-Schober già palesò come le opinioni pubbliche dei due paesi germanofoni, entrambi penalizzati dai trattati di pace del primo conflitto mondiale e pertanto revisionisti, fossero inclini alla reciproca fusione.
Adolf Hitler
Il revisionismo territoriale tedesco, la minaccia rappresentata dal consolidamento del bolscevismo, la caduta della Borsa di Wall Street del 1929 – che andava a peggiorare le già precarie condizioni economiche tedesche, registrando in Germania un tasso d’inflazione e di disoccupazione elevatissimi – e infine la retorica ultranazionalista, razzista e antisemita, tipica e abbondantemente diffusa in tutta l’Europa della prima metà del ‘900, furono fattori determinanti per l’ascesa al potere del partito nazionalsocialista di Adolf Hitler. Il programma politico del partito nazista (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, NSDAP) era già stato tracciato nei suoi principi generali dallo stesso Hitler nella sua opera Mein Kampf, scritta, forse con l’aiuto di pangermanisti quali Karl Haushofer, ai tempi della prigionia scontata in seguito al fallimento del Putsch nazista di Monaco di Baviera del 1923. I suoi punti fondamentali erano: revisione delle inique condizioni che il Trattato di Versailles aveva imposto alla Germania; riunificazione alla luce del principio di nazionalità di tutti i tedeschi in un unico Stato germanico; ricerca di uno spazio vitale per il popolo tedesco nell’Est; lotta senza quartiere al bolscevismo e al giudaismo internazionale.
Alle parole corrisposero i fatti. Si potrebbe dire senza esagerare, infatti, che dal 1933, anno in cui Hitler divenne cancelliere, fino al 1939, anno di scoppio del secondo conflitto mondiale, tutta l’azione politica hitleriana fu volta, pezzo per pezzo, ad annullare le clausole del Trattato di Versailles, a vantaggio della Germania. In questo rapido processo di disintegrazione di quello che i nazisti consideravano il Diktat di Versailles, le altre potenze europee si dimostrarono nella maggior parte dei casi deboli; i tentativi di frenare il revisionismo tedesco vi furono, ma non si può parlare di azioni ben coordinate né di portata sufficiente.
Benito Mussolini
Nel 1933, dopo l’ascesa al potere dei nazisti, il primo ministro italiano Benito Mussolini tentò di concludere il celebre Patto a Quattro. Il progetto prevedeva un accordo tra Gran Bretagna, Francia, Italia e Germania e il suo scopo era quello di conservare la pace in Europa. Ad esso si opposero subito tanto la Polonia che la Piccola Intesa (che comprendeva Romania, Jugoslavia e Cecoslovacchia, ossia tutti paesi anti-revisionisti e per ciò stesso contrari ad un riavvicinamento delle altre potenze europee alla Germania).  E proprio a causa dell'opposizione dei paesi della Piccola Intesa e alle resistenze della Francia, il Patto a Quattro non venne mai ratificato né attuato. Laconicamente Mussolini riassunse la situazione con una celebre, lungimirante frase: “In assenza di un accordo, parlerà Sua Maestà il cannone”. Inoltre, la scarsa volontà tedesca di collaborare con le altre potenze per addivenire a risultati comuni si palesò chiaramente alla Conferenza del disarmo – che, iniziata nel 1932, si protrasse fino al 1935 – che la Germania decise di abbandonare, fuoriuscendo poco dopo anche dalla Società delle Nazioni. Nel 1934 la Germania tentò di ridurre l’influenza francese in Polonia, rassicurando quest’ultima con un patto di non aggressione valido per dieci anni. Sempre accesa, poi, restava in questo periodo la questione austriaca. Nel 1933, Mussolini, preoccupato dall’idea di un potenziale Anschluß austro-tedesco, propose un progetto di creazione di una coalizione di Stati danubiano-balcanici volta a tutelare l’indipendenza austriaca. La coalizione doveva ricomprendere paesi revisionisti quali la Croazia (il che, si noti, implicava lo smembramento della Jugoslavia), l’Ungheria e l’Austria e doveva restare sotto influenza italiana. Con l’Austria all’interno della coalizione, risultava impossibile, per la Germania, la sua annessione. Nel 1934 Hitler e Mussolini si incontrarono per la prima volta a Venezia per discutere diverse questioni. L’incontro mostrò sin da subito la natura poco amichevole, in quel tempo, dei rapporti tra le due potenze: vi erano notevoli punti d’attrito, infatti, su varie questioni, e soprattutto sull’Austria e sul Sudtirolo. Fu proprio nel 1934, poi, che in Austria il partito nazista locale tentò di attuare un colpo di Stato, eliminando fisicamente il cancelliere Dollfuss per poterne collocare uno favorevole all’Anschluß: con l’ascesa al governo del cancelliere Schuschnigg, anch’egli moderato e cattolico, il Putsch fallì. Nonostante lo smacco subito dai nazisti in Austria, però, nel 1935 la Germania poté contare su un indiscusso successo: quell’anno si tenne infatti un plebiscito nella Saar – regione separata dalla Germania dalla fine della prima guerra mondiale – che con maggioranza schiacciante la ricondusse nel Reich.
Le rivendicazioni tedesche in virtù
del principio di nazionalità
Dal 1934 la Germania aveva promosso un massiccio piano di riarmo, creando un’aviazione militare (Luftwaffe) e reintroducendo la coscrizione obbligatoria. Il rafforzamento tedesco impauriva sempre di più tanto l’Italia quanto la Francia. Entrambe concordavano nella necessità di evitare ad ogni costo l’Anschluß. Fu così che nel 1935 Mussolini stipulò con la Francia gli Accordi di Roma. Oltre alla cessione francese all’Italia di alcuni territori nelle frontiere coloniali, essi prevedevano che Italia e Francia si impegnassero ad aiutarsi reciprocamente per garantire l’integrità e l’indipendenza dell’Austria. Questi accordi rappresentavano un profondo riavvicinamento tra Italia e Francia, legate da un comune obiettivo. La tappa successiva fu la realizzazione, attraverso la nascita del cosiddetto Fronte di Stresa, della Dichiarazione di Stresa, ossia una dichiarazione comune italo-franco-britannica volta a condannare congiuntamente il riarmo tedesco. Con essa, le tre potenze riaffermarono la propria fedeltà ai Patti di Locarno, garantirono l’integrità austriaca e protestarono contro il metodo hitleriano di denuncia unilaterale dei trattati internazionali. Inoltre, la Francia tentò di ostacolare il rafforzamento tedesco tentando un avvicinamento anche con l’Unione Sovietica di Stalin. Invero, per affrontare il pericolo crescente rappresentato dalla Germania nazista, il primo ministro francese Barthou aveva elaborato un piano che tentò di realizzare nel corso della primavera e dell'estate del 1934. La sua intenzione era quella di negoziare un vero e proprio Patto dell'Est. L'isolazionismo britannico faceva sì che solo due grandi potenze fossero in grado di aiutare la Francia in funzione anti-germanica: l'Italia e l'URSS. Barthou aveva però più fiducia nell’ Armata Rossa e il Patto dell'Est rappresentava per lui una garanzia indispensabile. Il progetto che propose ai sovietici era il seguente: si trattava di stipulare tre trattati, di cui uno era una garanzia reciproca fra vicini che prevedeva un aiuto militare immediato incasso di aggressione (Germania, URSS, Finlandia, Estonia, Lettonia, Polonia, Cecoslovacchia); il trattato B era invece un trattato di assistenza franco-sovietico ottenuto tramite la decisione dell'URSS al Trattato di Locarno e l'adesione francese al Patto orientale; il terzo documento era una dichiarazione secondo la quale il primo ed il secondo trattato non erano in contraddizione con la Società delle Nazioni e sarebbero entrati in vigore quando l'URSS vi fosse stata ammessa (l’URSS sarebbe entrata nella SDN proprio nel 1934, per esserne espulsa nel 1939 in seguito all’occupazione di Estonia, Lettonia e Lituania e all’invasione della Finlandia). Tuttavia progetto fallì di fronte al rifiuto della Polonia e della Germania. Sennonché, di questo documento restava però l'essenziale: la possibilità di una vera e propria alleanza franco sovietica. Nel 1935, infatti, la conclusione del Patto di Parigi stabilì la nascita della vera e propria alleanza franco-sovietica: si affermava che in caso di aggressione contro la Francia o l’URSS da parte di paesi terzi, i due paesi contraenti si sarebbero consultati. L'obiettivo del patto, che non specificava l'identità dell'aggressore, era essenzialmente quello di garantirsi contro un attacco da parte della Germania nazista. In particolare, il patto prevedeva che:

- in caso di minaccia di aggressione contro l'URSS o la Francia, i due paesi firmatari si sarebbero consultati per riaffermare il valore dell'art. 10 del Patto della Società delle Nazioni, facilitando così l'azione del Consiglio della Società stessa;

- se il Consiglio avesse deciso delle sanzioni contro un paese europeo colpevole di aggressione contro una delle due Parti, l'altra le avrebbe fornito tutto il suo aiuto;

- se una di esse fosse stata attaccata senza provocazione da uno Stato europeo e se il Consiglio della Società delle Nazioni non fosse riuscito a prendere una decisione, l'altra potenza le avrebbe prestato "immediatamente aiuto ed assistenza".

Un protocollo speciale, infine, garantiva che il patto non sarebbe stato applicato se l'aggressione fosse provenuta dalla Germania e fosse stata riconosciuta tale da Gran Bretagna ed Italia, che erano le garanti del Patto di Locarno. Ad esso seguì un simile accordo stipulato tra Unione Sovietica e Cecoslovacchia. Tuttavia, un protocollo annesso all'accordo subordinava l'applicazione delle misure di mutua assistenza previste in caso di aggressione all'aiuto prestato dalla Francia al paese attaccato. In tal modo, se la Germania avesse attaccato la Cecoslovacchia, la Francia avrebbe avuto nei confronti di quest'ultima una doppia responsabilità, dal momento che era legata ad essa anche dal trattato di alleanza stipulato nel 1924 e rinnovato con gli accordi di Locarno: una mancata reazione francese avrebbe reso vano anche il trattato cecoslovacco-sovietico, ciò che poi si sarebbe verificato puntualmente con la dissoluzione della Cecoslovacchia nel marzo del 1938.
Nonostante il quadro politico di tensione, per tutto il periodo di permanenza al potere di Hitler, fino almeno alla crisi dei Sudeti del 1938, i governi inglese e francese ritenevano fosse opportuno evitare un conflitto bellico con la Germania, approcciandosi al nazismo con quella che sarebbe divenuta nota come politica dell’appeasement. In Gran Bretagna, la politica dell'appeasement aveva contagiato l'opinione pubblica inglese, favorevole a riconoscere il Trattato di Versailles come iniquo verso la Germania, e vedeva tra i suoi maggiori sostenitori il premier Chamberlain (eletto nel 1937) che credeva di poter ammansire Hitler, assecondandolo sulle rivendicazioni che credeva più ragionevoli. Alcune forze politiche, le più conservatrici, ritenevano poi che Hitler potesse costituire un "baluardo" ad Est contro la Russia sovietica, verso cui comunque si sarebbero principalmente dirette le ambizioni territoriali tedesche. Anche in Francia la paura della Germania era molto forte, ma ancora di più era quella di una nuova guerra, che avrebbe colpito un paese sostanzialmente in ginocchio a livello economico e lacerato politicamente al suo interno. Di conseguenza la Francia restò sulla difensiva seguendo una politica subalterna all'Inghilterra.
Tuttavia, nel 1936 la situazione si ribaltò. Per Hitler l’alleanza franco-sovietica rappresentava una chiara violazione dei Patti di Locarno, i quali prevedevano un patto di non aggressione tra Francia e Germania. Al momento della ratifica del trattato franco-sovietico, quindi, Hitler denunciò la violazione degli Accordi di Locarno e conseguentemente entrò in armi nella Renania smilitarizzata; un plebiscito legittimò la temeraria impresa hitleriana. Sempre nel 1936, poi, Germania ed Austria siglarono un accordo che, sebbene si offrisse di garantire l’indipendenza e sovranità austriaca, rappresentava in concreto un ulteriore passo in avanti verso l’Anschluß. La proclamazione, ancora nel 1936, della neutralità del Belgio ruppe la solidarietà di questo paese con Francia e Gran Bretagna. Essa rappresentò un successo tedesco poiché le alleanze che la Francia aveva stipulato con i paesi dell’Est europeo potevano considerarsi inoperanti in quanto in caso di guerra contro la Germania, la Francia non avrebbe potuto più attraversare il Belgio per venire loro in soccorso: alla Francia non restò che fortificarsi dietro alla Linea Maginot, mentre che la Germania rispondeva fortificando la Linea Sigfrido. Altro evento rivoluzionario del maggio 1936 fu la definitiva annessione italiana dell’Etiopia. La condanna del gesto da parte della Società delle Nazioni allontanò l’Italia dall’intesa con Francia e Gran Bretagna, avvicinandola di conseguenza alla Germania nazista. Già nel luglio del 1936, invero, l’avvicinamento italo-tedesco si era espresso con la costituzione del celebre “Asse Roma-Berlino”, in virtù del quale Mussolini accettava l’idea di un potenziale Anschluß austro-tedesco in cambio del riconoscimento tedesco della conquista italiana dell’Etiopia.
La Conferenza di Monaco
Grazie alle favorevoli circostanze dell’anno 1936, la Germania poté quindi iniziare a costituire davvero l’ordine internazionale nazionalsocialista. Alla Conferenza segreta di Berlino del 1937 Hitler illustrò ai suoi ministri i piani di espansione in Austria e Cecoslovacchia. Si dovette scegliere con quale paese iniziare, e la scelta cadde sul primo. Forte del consenso italiano e dell’appeasement franco-britannico, nel 1938 Hitler procedette all’annessione dell’Austria alla Germania: l’Anschluß fu pertanto compiuto. La tappa seguente furono i Sudeti, ossia i territori in Boemia occidentale abitati da una maggioranza etnica tedesca. La Cecoslovacchia poteva contare su un trattato di alleanza con Francia e Unione Sovietica, ma in caso di attacco tedesco la Francia doveva agire da sola poiché l’URSS sarebbe intervenuta solo se le sue truppe avessero potuto transitare per Polonia e Romania, permesso che naturalmente i due paesi, impauriti, non le accordarono. La Gran Bretagna accettò dal canto suo l’annessione dei Sudeti alla Germania. Per risolvere la questione, Mussolini propose che le potenze si incontrassero in una conferenza, che in effetti si tenne a Monaco (dal 29 al 30 settembre 1938). Vi parteciparono Gran Bretagna, Francia, Italia e Germania e l’accordo concluso prevedeva il via libera all’annessione tedesca dei Sudeti purché Hitler offrisse delle garanzie. Cinicamente, la Cecoslovacchia, principale paese interessato, non fu neppure interpellata. Dopo la firma del trattato di non aggressione anglo-tedesco e di uno analogo franco-tedesco, la Cecoslovacchia fu smembrata: la Germania annesse i Sudeti, la Polonia la città di Teschen, l’Ungheria la Slovacchia meridionale; di ciò che restava si costituì una Slovacchia indipendente sotto influenza tedesca ed il protettorato tedesco di Boemia e Moravia.
Firma del Patto Molotov-Ribbentrop
Nel 1939, comunque, le cose mutarono. Se a un lato l’Italia attraverso la stipulazione del Patto d’Acciaio (22 maggio 1939) – che prevedeva un’alleanza difensiva e di aggressione italo-tedesca – aveva eliminato il contenzioso con la Germania sul Sudtirolo, dall’altro le potenze occidentali compresero che la Germania hitleriana non poteva più essere approcciata attraverso una debole politica di appeasement. I trattati di alleanza anglo-polacco e franco-polacco furono quindi conclusi per garantire l’indipendenza polacca, minacciata dalle rivendicazioni tedesche su Danzica e la Pomerania. Allorché in settembre la Germania, copertasi le spalle con la stipulazione con l’URSS del Patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop (23 agosto 1939), attaccò la Polonia il sistema di alleanza franco-britannico-polacco scattò e la guerra, poi divenuta mondiale, fu inevitabile: il revisionismo tedesco aveva superato il punto di non ritorno.         


Riferimenti bibliografici:

J. B. Duroselle, Storia diplomatica dal 1919 ai nostri giorni.

                        
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