lunedì 9 marzo 2015

Alle origini della “vittoria mutilata”: i sogni svaniti dell’Italia nella Grande Guerra



La decisione dell’Italia di scendere in guerra contro i formali alleati della Triplice Alleanza, al fianco della potenze della Triplice Intesa, fu presa in considerazione delle cospicue promesse che inglesi, francesi e russi le avevano garantito sin dalla conclusione del Patto di Londra dell’aprile 1915. Allo scoppiare del conflitto, nell'estate del 1914, l’Italia aveva deciso, nonostante l’accesa polemica sorta al suo interno tra interventisti e non-interventisti, di mantenere una linea di neutralità. Ciò era possibile in quanto la Triplice Alleanza, di cui l’Italia era firmataria sin dal 1882, e che era poi stata sistematicamente rinnovata, era un’alleanza di natura difensiva che, in quanto tale, obbligava le parti contraenti a scendere in campo insieme solo nell'eventualità di un attacco da parte di uno Stato terzo nei confronti di un alleato. Ciononostante, in seguito all'attentato di Sarajevo da parte di un cittadino serbo-bosniaco costato la vita all'arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo (28 giugno 1914), l’Impero austro-ungarico aveva inviato un ultimatum al Regno di Serbia, preludio della formale dichiarazione di guerra. Si comprende allora che il casus foederis della Triplice Alleanza non era potuto scattare in quando l’Austria-Ungheria appariva come Stato aggressore. In questo senso, quindi, l’Italia decise di mantenere un atteggiamento di neutralità.
L'attentato di Sarajevo, 28 giugno 1914

Al contempo, negli anni che precedettero lo scoppio del primo conflitto mondiale, l’Italia si era gradualmente avvicinata alle potenze dell’Intesa, soprattutto a Gran Bretagna e Francia. Nello specifico, con la Francia erano stati superati alcuni punti di attrito particolarmente sensibili quali la Questione romana – che datava 1870, dacché Roma era diventata capitale del regno italiano – e le contese in ambito coloniale. In quest’ultimo contesto, l’Italia e la Francia erano riuscite a trovare un accordo per il Nord Africa che riconosceva alla prima una sfera d’influenza in Tripolitania e Cirenaica – territori conquistati dall'Italia nel 1912, in seguito alla guerra contro l’Impero ottomano, e ribattezzati Libia – e alla seconda quella sul Marocco; inoltre, l’Italia aveva rinunciato ad eventuali rivendicazioni sulla Tunisia a vantaggio della Francia. Anche con la Gran Bretagna i rapporti erano favorevoli, soprattutto quando capo del governo italiano era Giolitti. Infine, l'accordo di Racconigi, stipulato nell'ottobre del 1909 tra l'Impero russo e il Regno d'Italia, avvicinò significativamente i due paesi: esso rappresentava un patto segreto incentrato sul mantenimento dello status quo nei Balcani, che, firmato all'insaputa della Triplice Alleanza e della stessa Austria, aveva per obiettivo quello di ostacolare l'espansione austriaca nei Balcani (dal 1908, infatti, l’Austria-Ungheria aveva formalmente annesso la Bosnia-Erzegovina, regione che occupava dal 1878). Invero, la ricerca di un'area di influenza nei Balcani e nel Mediterraneo sarà da quel momento in poi una costante nei rapporti diplomatici tra Russia e Italia. In questo scenario fu dunque possibile concludere nell'aprile del 1915 il Patto di Londra, che impegnava l’Italia a scendere in campo a fianco delle potenze dell’Intesa – Francia, Gran Bretagna e Russia – contro gli Imperi centrali – Germania, Austria-Ungheria, Impero ottomano. In termini di acquisizioni territoriali, il patto prevedeva che a guerra terminata l’Italia avrebbe ottenuto il Trentino, l’Alto Adige (il Sudtirolo), fino al Brennero, la Venezia Giulia con l’Istria e una parte molto vasta di Dalmazia. All'Italia si prometteva anche un’influenza preponderante in Albania. Di conseguenza, l’Italia accettò di partecipare al conflitto, concludendolo nel 1918 da vincitrice. Quando si aprì la Conferenza di pace, in Francia, l’entusiasmo dell’Italia era particolarmente acceso; senonché, le decisioni prese in questa sede delusero sotto molti punti di vista le aspettative italiane.   
Le disposizioni del Patto di Londra (1915) e
 la Linea Wilson (1919)

In primo luogo, per quanto riguarda i confini nord-orientali, l’Italia, rappresentata alla Conferenza da Vittorio Emanuele Orlando, ottenne solo in parte quei territori promessi dal Patto di Londra. Dallo smembramento dell’Impero austro-ungarico, infatti, l’Italia ottenne il Trentino, l’Alto Adige (quest’ultimo non tanto per considerazioni di carattere nazionalistico quanto per ragioni strategiche di difesa dei confini) e la Venezia Giulia con l’Istria ma non la Dalmazia, eccezion fatta per la città di Zara e il suo territorio adiacente (rispetto alle rivendicazioni del 1915, l’Italia aggiungeva alla Conferenza anche il possesso della città di Fiume). Questa palese violazione degli accordi del 1915 in virtù dei quali l’Italia era scesa in guerra fu la conseguenza di due fattori precisi. Il primo fu la nascita dallo smembramento di parti della Cisleithania (parte austriaca dell’impero austro-ungarico) con il Trattato di Saint-Germain-en-Laye e della Transleithania (parte magiara dell’impero austro-ungarico) con il Trattato del Trianon del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (Regno di Jugoslavia dal 1929). Quando nacque, questa nuova entità politica ricomprendeva la Carniola, la Croazia, la Slavonia, la Dalmazia, parte del Banato, la Bosnia e l’Erzegovina; inoltre, essa andò a fondersi con i preesistenti regni di Serbia e di Montenegro, acquisendo quindi anche il Sangiaccato di Novi Pazar, il Kosovo e una buona porzione di Macedonia. Non stupisce che questo nuovo, pericoloso, attore geopolitico costituisse per l’Italia, che aveva nell'area danubiano-balcanico-adriatica interessi preminenti, una minaccia assoluta. Il secondo fattore, strettamente correlato al primo, fu costituito dalla volontà del presidente americano Woodrow Wilson, rappresentante degli Stati Uniti d’America alla Conferenza di pace, di applicare il principio di autodeterminazione dei popoli – già espresso nei suoi celebri Quattordici punti – nella questione confinaria italo-jugoslava. In nome di tale principio, stando all'intrusivo presidente americano, l’Italia non poteva rivendicare il controllo della Dalmazia, che era abitata per la maggior parte da slavi meridionali; lo stesso presidente tentò di risolvere la questione tracciando la “linea Wilson”, che assegnava all'Italia la maggior parte dell’Istria ma attribuiva alla Jugoslavia l’intera Dalmazia con la città di Fiume/Rijeka. Comprensibilmente, l’Italia si sentì tradita dai suoi alleati e sorprende constatare come alla fine della guerra il principio di autodeterminazione nazionale venisse strumentalizzato ai fini degli interessi dei vincitori (e ciò nonostante l’” idealismo” di Wilson), venendo totalmente disapplicato nel caso delle popolazioni dei paesi sconfitti: si era infatti sostenuta l’autodeterminazione degli jugoslavi, dei romeni, dei polacchi, dei cecoslovacchi, dei greci, ma si era completamente ignorata quella dei magiari, dei bulgari, dei tedeschi dell’Alto Adige, ecc.
Il Regno dei serbi, croati e sloveni
 (Regno di Jugoslavia dal 1929)

La volontà di Wilson di non consegnare né la Dalmazia né Fiume all'Italia fu gravida di conseguenze. In Italia già si parlava di “vittoria mutilata”, e quando la delegazione italiana abbandonò i lavori della Conferenza, già nell'immediato dopoguerra il poeta Gabriele D’Annunzio invadeva con un manipolo di volontari la città di Fiume al fine di annetterla al Regno d’Italia. Solo il ritorno di Giolitti al governo parve risolvere in parte la questione ed instaurare dei rapporti meno tesi con il regno jugoslava: il Trattato di Rapallo del novembre 1920, infatti, pose fine all'esperienza rivoluzionaria dannunziana di Fiume, che veniva proclamata città libera; al contempo, l’Italia rinunciava alle rivendicazioni in Dalmazia pur conservando la città di Zara. Il Trattato di Rapallo apparve agli occhi degli irredentisti e nazionalisti italiani come un’onta e la questione dalmata dovette essere riconsiderata. Se infatti la Convenzione di Santa Margherita Ligure del 1922 parve riconfermare le clausole del Trattato di Rapallo con l’evacuazione delle truppe italiane dalla Dalmazia, i Patti di Roma del 1924, conclusi per volontà di Mussolini, modificarono la condizione di Fiume: la città venne spartita tra Italia e Jugoslavia, cui veniva concessa la parte di Porto Baros. Si concludeva così, almeno per il periodo intercorrente le due guerre mondiali, la questione dei confini orientali italiani.   Altre delusioni italiane della Conferenza di pace risultarono in ambito coloniale. Gli alleati dell’Intesa, istituendo con il Trattato di Versailles la Società delle Nazioni, avevano deciso di spartirsi tra di loro le ex colonie dell’Impero tedesco e dell’Impero ottomano attraverso dei mandati fiduciari per conto della Società stessa. Fu così che Gran Bretagna, Francia, Belgio, Sudafrica, Portogallo, Giappone e Cina ottennero di incorporare, sotto una forma o un’altra, i domini tedeschi in Africa, in Asia e nel Pacifico e quelli ottomani in Medio Oriente. In tutto questo processo all’Italia non fu riservato alcun ruolo. Le uniche compensazioni coloniali italiane furono degli esigui territori quali Giuba e Giarabub, posti a confine con i domini africani britannici.
Gli Accordi Sykes-Picot (1916)
Altro settore in cui l’Italia perse grandi occasioni, ma in questo caso non da sola, fu l’Anatolia. Il destino dell’Impero ottomano, il “malato d’Europa”, era ormai segnato da tempo, e la Grande Guerra ne avrebbe finalmente decretato la morte. In questo contesto, gli alleati dell’Intesa avevano nutrito progetti ambiziosi per spartirsi i territori ottomani. L’Accordo segreto anglo-francese Sykes-Picot del 1916 aveva già stabilito la spartizione dell’Anatolia in diverse aree di influenza: la Francia avrebbe ottenuto quella sulla Cilicia, l’Italia quella su Adalia e Smirne, la Russia quella sull'Armenia; inoltre, era previsto che la Russia ottenesse il controllo degli Stretti, che la Turchia avrebbe conservato l’Anatolia settentrionale e che i territori arabi dell’Impero ottomano sarebbero stati divisi tra Francia – che avrebbe ottenuto la Siria con il Libano – e Gran Bretagna – che avrebbe ottenuto la Mesopotamia e la Palestina –, ciò che poi si decise di attuare mediante il sistema dei mandati della Società delle Nazioni. Gli Accordi di San Giovanni di Moriana del 1917 riconfermavano le rispettive aree di influenza in Anatolia, garantendo anche quella italiana su Adalia, ma tuttavia non poterono essere ratificati a causa del mancato consenso russo, che non poté essere concesso a causa dello scoppio della rivoluzione e del cambio di regime. Il Trattato di Sèvres del 1920 stabilì l’effettivo smembramento dell’Impero ottomano, ricalcando per molti aspetti gli accordi segreti interalleati Sykes-Picot. Il sultano ottomano era pronto a ratificarlo ma a questo punto il nazionalista turco Mustafa Kemal dichiarò guerra alla Grecia, che pensava di approfittare della situazione per accrescere i suoi domini ai danni della Turchia, sconfiggendola (1922). Kemal colse l’occasione per scacciare le truppe d’occupazione italiane da Adalia. A guerra conclusa, pertanto, il Trattato di Sèvres venne sostituito con il Trattato di Losanna (1923), che prevedeva che la Turchia riottenesse dalla Russia il controllo degli Stretti e i distretti armeni di Kars e Ardahan, che riottenesse la Tracia orientale con Costantinopoli ed Adrianopoli (Edirne), che conservasse il dominio su tutta l’Anatolia e che riacquistasse dalla Francia la Cilicia, anche se i francesi mantenevano il Sangiaccato di Alessandretta. Fu così che gli italiani non ottennero nessuna delle acquisizioni previste dagli accordi Sykes-Picot e di San Giovanni di Moriana, continuando a conservare soltanto Rodi ed il Dodecanneso, italiani dal 1912.

Un’altra questione che deluse l’Italia fu quella relativa all'Albania. L’Albania si era resa indipendente dall'Impero ottomano nel 1913 grazie anche alla protezione dell’Italia e dell’Austria-Ungheria, che veniva offerta per evitare un’espansione della Serbia nei Balcani e nell’Adriatico. Sin dal Patto di Londra del 1915 l’Italia aveva richiesto il controllo di Valona (Vlorё), preludio per l’esercizio di un protettorato sull’Albania al fine di poter controllare il mare Adriatico attraverso il possesso di entrambi i lati d’accesso. Nel 1919 vi era anche stato un progetto, mai realizzato, noto con il nome di Accordo Tittoni-Venizelos, volto a spartire tra Italia e Grecia il territorio albanese. In tal senso, la Conferenza di pace non comportò nessun beneficio per l’Italia dal momento che l’Albania restò indipendente e l’Italia non ottenne il controllo della città di Valona, dovendosi accontentare solamente del possesso dell’isola di Saseno.  
Terre irredente italiane nel 1914
In conclusione, la Conferenza di pace che pose fine alla Grande Guerra e che regolamentò i nuovi confini d’Europa fu una vittoria a metà per l’Italia. Se infatti, con l’eccezione della Dalmazia, la questione irredentista poteva considerarsi conclusa e la preoccupazione della sicurezza delle frontiere, in virtù dell’acquisizione dell’Alto Adige, risolta, le altre mancate promesse franco-britanniche, le decisioni di Wilson nell'applicare arbitrariamente il principio di autodeterminazione dei popoli, le disposizioni generali dei trattati di Saint-Germain-en-Laye e di Losanna, la mancata compensazione coloniale e l’esclusione dell’Italia dal sistema dei mandati fiduciari societari sono prove sufficienti per domandarsi se l’Italia avesse fatto meglio a mantenere la neutralità del 1914, lasciando che fossero gli altri popoli a farsi massacrare in questa guerra sanguinaria, che risultò una vera, immane carneficina.    


Riferimenti bibliografici:         

G. Mammarella, P. Cacace, La politica estera dell’Italia, Bari, Laterza, 2013.  




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