martedì 3 marzo 2015

Il racconto del buon selvaggio e del Leviatano: un confronto tra Rousseau ed Hobbes intorno alla società naturale e politica




Abbiamo già considerato in precedenti pubblicazioni le caratteristiche dell’uomo nello stato di natura e nello stato civile. Cercheremo di capire ora quali siano i principali pregi e difetti di ambedue gli stati. Mentre infatti l’uomo è verosimilmente sempre uguale, e cioè portatore di eguali qualità o demeriti sia in natura che in società, le due condizioni analizzate sono invece sicuramente diverse: o meglio, esse presentano pure delle analogie, ma specialmente delle differenze: poiché, infatti, se l’uomo è sempre lo stesso, le sue condizioni di vita possono mutare per cause che forse nemmeno lui si accorge di aver prodotto.

Per confrontare i due stati ci serviremo del pensiero politico di due capisaldi della filosofia politica, pietre miliari della storia delle dottrine politiche, le cui idee su questo argomento risultano essere pressappoco antitetiche: Hobbes e Rousseau, ossia di un celebre denigratore dello stato di natura e di un suo altrettanto famoso apologeta. 
Thomas Hobbes

Cominciamo con Hobbes, che ci presenta tutti i vantaggi e i pregi dello stato civile, sottolineando tutti gli svantaggi dello stato di natura. Egli parte dal presupposto che lo stato di natura, come già visto, sia una condizione di anarchia violenta, in cui ogni individuo può porre in essere qualunque azione senza venire punito, in quanto la natura stessa avrebbe concesso a ciascun individuo il diritto a tutte le cose. Questo dato di fatto comporta che lo stato di natura consista in una condizione di guerra permanente di tutti contro tutti (riassunta con la celebre espressione di bellum omnium contra omnes). E’ una condizione in cui non v’è crimine, in quanto non esiste legge civile né comune biasimo, ed in cui ognuno è pertanto giudice esclusivo delle proprie azioni; non essendovi, infatti,  un potere sovrano, ognuno ha la facoltà di proteggersi da sé come meglio può e crede.
Esistono qui, è vero, delle leggi naturali che possono essere carpite mediante la retta ragione e che permettono di far sopravvivere l’uomo attraverso la cessazione dello stato di guerra, ma è altrettanto vero che manca un potere coercitivo che le renda certe ed esecutive.
Dipendendo, quindi, la loro applicazione esclusivamente dalla buona volontà dei singoli, le leggi di natura per ciò stesso non possono essere sufficienti a garantire la pace, e questo proprio perché non garantiscono a nessuno alcuna sicurezza ad osservarle.
Da ciò deriva, di necessità, che lo stato di guerra permanente possa venire interrotto solo istituendo lo Stato, cui viene data la luce attraverso un patto sociale artificiale che necessità di una potestà comune che governi con il timore della pena. La natura dello Stato così creato prevede la totale sottomissione al potere sovrano - sia esso un uomo o un’assemblea -, a cui i consociati alienano quei diritti naturali in eccesso che offrivano la facoltà di nuocere ai propri simili. In questo modo lo Stato ne diveniva esclusivo titolare e aveva facoltà di utilizzarli a vantaggio di tutti per la difesa comune contro i nemici interni e, soprattutto, esterni. Lo Stato costituito per patto deve avere le caratteristiche di uno Stato assoluto, nel senso che il sovrano non deve in alcun modo condividere la sovranità con altri, separando i tre poteri e costituendo un governo misto, né la stessa autorità sovrana può essere soggetta a critiche o messa in discussione: se ciò avvenisse, infatti, riemergerebbero, con le sedizioni, le congiure e le faziosità, i germi dello stato di guerra, che condurrebbero gli individui alla guerra civile e al ritorno all'anarchico e violento stato di natura.
Il sovrano, pertanto, deve essere obbedito, anche se un suo ordine può apparire secondo il giudizio privato dei cittadini, sbagliato o ingiusto; inoltre, lo stesso sovrano, essendo assoluto, non è soggetto alle leggi che emana.
Da quanto scritto emerge che il nucleo del pensiero politico hobbesiano consiste nell'obbedienza al potere costituito e ciò per evitare una volta per sempre lo stato di guerra tra gli uomini. Hobbes considera lo Stato un male necessario: esso è l’unico mezzo che l’uomo possiede per evitare le eccessive violenze e miserie naturali, che finirebbero per sopraffarlo rapidamente. E’ vero che lo Stato nasce dal timore reciproco, prodotto dalle caratteristiche stesse dell’essere umano allo stato naturale, ma è pur vero che esso rappresenta un male minore rispetto al bellum omnium contra omnes: anzi, esso risulta proprio un male necessario, un’alternativa meno amara. Queste conclusioni che trae il filosofo inglese non sarebbero state possibile se avesse avuto una visione meno pessimistica sulla natura in genere e sull'essere umano in particolare. Il brano che segue, tratto dal De Cive costituisce una valida sintesi dei pregi dello stato civile hobbesiano:

Fuori dello stato civile, ciascuno ha una libertà del tutto completa, ma sterile, poiché chi, per la sua libertà, fa tutte le cose a suo arbitrio, per la libertà degli altri patisce tutte le cose, ad arbitrio altrui. Invece, una volta costituito lo Stato, ciascuno dei cittadini conserva tanta libertà, quanto basta per vivere bene e con tranquillità; e agli altri ne viene tolta tanta, da non renderli più temibili. Fuori dello Stato ciascuno ha il diritto a tutte le cose, ma nessuno gode con sicurezza di un diritto limitato. Fuori dello Stato, chiunque può essere legittimamente spogliato e ucciso da chiunque altro. Nello Stato, soltanto da uno. Fuori dello Stato, siamo protetti soltanto dalle nostre forze. Nello Stato, dalle forze di tutti. Fuori dello Stato il frutto dell’industria non è sicuro per nessuno; nello Stato, per tutti. Infine, fuori dello Stato, è il potere delle passioni, la guerra, la paura, la miseria, la bruttura, la solitudine, la barbarie, l’ ignoranza, la crudeltà; nello Stato, il potere della ragione, la pace, la sicurezza, la ricchezza, lo splendore, la società, la raffinatezza, la scienza, la benevolenza. 

Non c’e dubbio che se fosse questa la situazione in natura, è più che ragionevole volerne uscirne.
E tuttavia  non si possono non scorgere, nel pensiero politico di Hobbes, degli elementi che, a nostro modo di vedere, presentano dei problematici difetti. Il più grande è dato dal fatto che lo Stato hobbesiano è dotato di una potestà assoluta irresistibile, essendo appunto un Leviatano, cioè un mostro. Esso è talmente indistruttibile e potente da essere virtualmente in grado di schiacciare senza contrasti qualunque forza gli si opponga, sia di natura interna che esterna. Quantunque esso sia stato istituito attraverso un patto sociale espressione della volontà dei costituenti stessi, esso resta dotato di un potere potenzialmente illimitato, che, tra le altre cose, gli offrirebbe la facoltà di espropriare le proprietà dei sudditi, di essere svincolato dalle sue stesse leggi, di accentrare i tre poteri statuali nelle mani di un solo organo e che obbligherebbe la volontà dei cittadini a coincidere perfettamente con la propria. E’, in una parola, uno Stato che esige una cieca obbedienza per evitare il ritorno allo stato di guerra naturale. Forse non fu teorizzato mai nulla di così vicino ad uno Stato totalitario tout-court.
Jean-Jacques Rousseau

Per quanto attiene Rousseau, invece, lo stato di natura è una condizione in cui l’uomo non nuoce il proprio simile a meno che non sia per lo scopo di legittima difesa, in cui è disuguale ad altri uomini solo per ragioni fisiologiche e non politiche, in cui vive in maniera semplice, uniforme e solitaria, ed in cui è mosso da innata pietà nel soccorrere i suoi simili. Marcatamente esso si caratterizza, poi, per l’assenza di proprietà privata, la quale nacque come conseguenza della scoperta dell’agricoltura, che comportò la divisione dei lotti di terraFu la società civile a dar vita allo stato di guerra tra gli individui e ad essere all'origine di tutti i mali dell’uomo. Fu con essa che sorse la disuguaglianza, che sarebbe altrimenti ben minore in natura, come conseguenza della nascita della proprietà privata e della divisione del lavoro. La diffusione della proprietà privata e la distribuzione diseguale delle ricchezze e dei patrimoni fecero addirittura sorgere all'interno della società civile la schiavitù e l’oppressione dei popoli. Ed è perciò profondamente ipocrita e malvagia questa società civile, laddove la condizione più desiderabile sarebbe lo stato naturale, che si colloca a metà strada tra l’indolenza originaria dell’uomo primitivo e la società civile coeva piena d’amor proprio ed ingiustizia.
Nonostante tutte queste amare critiche nei confronti dello stato civile, però, Rousseau non è contrario all'idea di istituire uno Stato o una società politica. Al contrario, egli sostiene che la disuguaglianza sociale possa essere evitata proprio all'interno di uno Stato posto in essere dalla stipulazione di un contratto sociale espressione della volontà generale della nazione. Dal momento che è la collettività stessa a farlo proprio, lo scopo del contratto sarà quello di fondare una società giusta, che si fondi sull'uguaglianza morale e politica, e che, tra le disuguaglianze naturali, mantenga solo quella fisico-biologica. Siffatto Stato sarà per forza di cose democratico: al suo interno, infatti, ogni decisione popolare deve provenire da organi politici legittimi, ossia legittimati dalla volontà sovrana dei consociati stessi, e per ciò stessi giusti ed equi, in quanto nessuno avrebbe mai intenzione di costituire qualcosa di nocivo per se stesso.
Da ciò si evince che, volendo accettare l’idea rousseauiana che dentro lo stato civile siano presenti le cause principali della disuguaglianza e della schiavitù, appare senz'altro preferibile lo stato naturale di libertà ed autosufficienza. Ma ecco che se pure esso possa apparire pregevole, non è sempre detto che il pensiero democratico sia esente da difetti. Uno dei difetti principali del ragionamento di Rousseau è, invero, proprio la tipologia di Stato che intende creare attraverso il contratto sociale. Paradossalmente esso non è altro che un’altra specie di Leviatano. Volendo, infatti, costituire uno Stato democratico che è espressione della volontà generale dei consociati e che deve far dipendere ogni suo atto legittimo dalla medesima equivale, in un certo senso, a riproporre, similmente a quanto fatto da Hobbes, un altro modello di Stato totalitario in cui la volontà della maggioranza soverchia e annulla quella della minoranza. Un simile “Leviatano dei cittadini”, se portato alle estreme conseguenze, conduce direttamente all'idea di “tirannide della maggioranza” di cui parlava Tocqueville.

Per riassumere, i pregi dello stato civile hobbesiano consistono nel far cessare lo strato di guerra perenne, mentre i difetti di quello di Rousseau nella condizione di disuguaglianza ed ingiustizia che al suo interno si vengono a manifestare; viceversa, i difetti dello stato naturale di Hobbes sono caratterizzati dai suoi tratti tipicamente anarchici, caotici e violenti, mentre i pregi di quello rousseauiano si concentrano nell'idea che la condizione umana sia prossima all'uguaglianza, alla spontaneità e alla pietà verso i consimili. Al contrario, i difetti dello stato civile hobbesiano consistono nella creazione di un potere assoluto e totalitario cui si deve stretta obbedienza, mentre i pregi di quello di Rousseau prevedono che esso possa annullare la disuguaglianza politica nel momento in cui il contratto istitutivo è espressione della volontà generale dei costituenti; viceversa i difetti dello stato di natura di Rousseau fanno sì che non esista una potestà comune per rendere certe le condizioni umane in esso, mentre i suoi pregi nel pensiero politico hobbesiano sono, in verità, del tutto assenti.


Riferimenti bibliografici:

A. de Tocqueville, La Democrazia in America, Torino, UTET, 2007.

T. Hobbes, Leviatano, Bari, Laterza, 2010.

T. Hobbes, De Cive, Roma, Editori Riuniti, 2005.

J. J. Rousseau, Origine della Disuguaglianza, Milano, Feltrinelli, 2008. 

J. J. Rousseau, Il Contratto Sociale, Bari, Laterza, 2006.

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