lunedì 16 febbraio 2015

Considerazioni filosofiche sullo stato di natura



Chi decidesse di sfogliare le pagine di un atlante geografico – politico noterebbe che, eccezion fatta per l’Antartide, comunque praticamente disabitata, al giorno d’oggi tutte le porzioni di terra emersa sono suddivise in Stati sovrani, o al massimo in entità politiche dalla sovranità limitata a causa del loro status incerto o ancora da definire, come i territori contesi tra più Stati o i territori in cui risultano accentuate le forze centrifughe di matrice secessionista o indipendentista dovute alle più varie ragioni politiche, sociali ed economiche. Lo stesso concetto di frontiera, ossia di confine politico non del tutto definito, ancora presente in alcune aree geografiche fino agli inizi del 1900, è oggi del tutto scomparso almeno sulla carta. Pertanto, le pagine del nostro atlante ci mostrerebbero con chiarezza che la forma di società politica statuale superiorem non recognoscens si è diffusa e consolidata su tutta la Terra, inglobando a sé foreste, deserti, ghiacciai e catene montuose.
Ma allora, stando così le cose, dove è possibile ricercare lo stato di natura? Come si può descrivere qualcosa che tuttora non esiste, e che forse non è mai esistito? In altre parole, a cosa si riferivano i grandi filosofi politici del passato quando parlavano del cosiddetto stato di natura?
Innanzitutto, è opportuno ribadire che, in linea di principio, lo stato di natura è o effettivamente estinto o meramente immaginario, ed è così che veniva generalmente inteso. Afferma infatti Rousseau nelle prime pagine dell’Origine della disuguaglianza:

Jean Jacques Rousseau
[…] non è impresa da poco quella di sceverare ciò che vi è di originario da ciò che vi è di artificiale nella natura attuale dell’uomo, e di conoscere bene uno stato che non esiste più, che forse non è affatto esistito e probabilmente non esisterà mai, e sul quale tuttavia è necessario avere delle idee giuste per giudicare bene intorno al nostro stato presente.

Da quanto appena affermato dal filosofo ginevrino risulterebbe chiaro che lo stato di natura è da considerarsi come una condizione ipotetica. E ciò appare tanto più significativo date le possibilità dell’epoca in cui egli scrive di poter considerare uomini allo stato naturale gli indigeni delle terre di recente e recentissima scoperta: evidentemente Rousseau considera quelle stesse società indigene (americane, africane, oceaniche) come società già fuoriuscite dallo stato di natura, anche se probabilmente ben più vicine ad esso che non le cosiddette società civili coeve, contro cui sovente scaglia le sue critiche.
Ma questa è solo la visione di Rousseau. Vi sono altri filosofi che considerano lo stato di natura come qualcosa di reale e, soprattutto, attuale. Basti pensare a Hobbes, il quale, un secolo prima di Rousseau, aveva voluto dimostrare che lo stato di natura, ben lungi dall’essere un’ipotesi, è una condizione di anarchia che continua a restare sempre latente all’interno degli Stati, come una sorta di virus in incubazione. Essa si trasforma in una realtà concreta allo scoppiare di una guerra civile, come era avvenuto in Inghilterra ai tempi della Rivoluzione inglese (1640-1649), che venne vissuta in prima persona dal filosofo. Secondo Hobbes, l’anarchia tipica dell’uomo naturale, non vincolato da leggi esterne e da un potere coercitivo ad esso superiore capace di farle eseguire, era stata fatta risorgere in Inghilterra dal conflitto costituzionale e militare deflagrato tra re Carlo I ed Oliver Cromwell, ossia tra Corona e Parlamento. In questo senso, si può dunque affermare che il concetto di stato di natura hobbesiano poggi su basi più empiriche di quello di Rousseau, che è invece il parto di una deduzione teorico-aprioristica.
E’ opportuno, a questo punto, considerare più da vicino le autorevoli definizioni che vennero date allo stato di natura. Esse possono essere classificate in tre diverse categorie a seconda del grado di negatività che le caratterizzano, dalla descrizione più marcatamente ostile a quella più benevola:

1) Per Bodin “la società di natura […] fu caratterizzata da una vita umana sostanzialmente ferina […], caratterizzata dalla violenza, dalla sopraffazione, dalle continue lotte […], dominio degli istinti e delle passioni.”
Thomas Hobbes
Similmente, Hobbes afferma che “la condizione degli uomini fuori della società civile (condizione che si può ben chiamare stato di natura), non è altro che una guerra di tutti contro tutti, e che in tale guerra tutti hanno diritto a tutte le cose. Quindi, che tutti gli uomini, per necessità della loro natura, vogliono uscire da questo stato miserabile e odioso, non appena ne comprendono la miseria.”
Anche Spinoza sostiene che “[in natura] gli uomini, governati dal solo istinto di autoconservazione, vivono in uno stato di guerra continua, di assoluta insicurezza e di miseria, in balìa unicamente della sorte, senza alcuna possibilità di poter garantire il proprio futuro.”
Infine anche Kant non cela che lo stato naturale sia caratterizzato da una guerra permanente di tutti contro tutti, e che come tale sia uno stato da cui l’uomo deve uscire.

     2) Visione più moderata è quella di Locke, il quale sostiene che lo stato di natura “sia lo stato in cui tutti gli uomini si trovano naturalmente, vale a dire uno stato di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e di disporre dei propri beni e persone come meglio crede, entro i limiti della legge di natura, senza chiedere permesso o dipendere dalla volontà di un altro. E’ anche uno stato di eguaglianza, in cui ogni potere e autorità sono reciproci, non avendone nessuno più di un altro.” E prosegue poco dopo: “Ma sebbene sia uno stato di libertà, tuttavia non è uno stato di licenza. Sebbene in questo stato l’uomo abbia una libertà incondizionata di disporre della sua persona e dei suoi averi, tuttavia non ha la libertà di distruggere se stesso così come ogni altra creatura in suo possesso, tranne nel caso in cui lo richieda un qualche motivo più nobile che la semplice conservazione.”

3)  Decisamente positiva è la visione che ne offre Rousseau. Egli, più che darci una definizione di stato di natura, ci descrive l’uomo in quello stato: “Nello stato di natura l’uomo è libero ed eguale; le disuguaglianze che possono riscontrarsi dal punto di vista fisico non incidono sui rapporti fra gli uomini: l’uomo, guidato dall’istinto e sollecitato dai limitati bisogni naturali, conduce una vita semplice e tranquilla”. Nulla di più lontano rispetto alla visione hobbesiana considerata al punto primo.


Date queste premesse, in ultima analisi, è possibile definire lo stato di natura come la condizione ontologica in cui soggiaceva l’essere umano prima che decidesse, per ragioni utilitaristiche, per imposizione esterna o per impulso innato, di riunirsi in società politica, alienando ad un potere superiore alcune delle proprie libertà naturali in cambio della garanzia coattiva delle altre.   

Riferimenti bibliografici:

J. J. Rousseau, Origine della Disuguaglianza, Milano, Feltrinelli, 2008.

M. d’Addio, Storia delle Dottrine Politiche, Genova, ECIG, 2002.

T. Hobbes, De Cive, Roma, Editori Riuniti, 2005.

I. Kant, Per la Pace Perpetua, Roma, Editori Riuniti, 2005.

J. Locke, Il Secondo Trattato sul Governo, Milano, BUR, 2007.




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