giovedì 2 aprile 2015

L’arte della guerra secondo Clausewitz. Un breve resoconto. Parte II






Clausewitz traccia una marcata distinzione tra tattica e strategia. Per tattica è da intendersi la dottrina dell’impiego delle forze armate nel combattimento, laddove la strategia indica invece la dottrina dell’uso dei combattimenti per lo scopo della guerra. Per illustrare meglio questa diversificazione possiamo prendere come esempio la campagna napoleonica di Russia: la battaglia di Borodino rappresentava la tattica, l’invasione dell’Impero russo la strategia. Invero, la campagna di Russia del 1812, fino all’arrivo a Mosca, è una vittoria francese nel breve periodo ma una sconfitta nel lungo. Bonaparte avrebbe dovuto costringere lo zar Alessandro I alla pace, ossia costringerlo a patteggiare, e solo così vi sarebbe stata una vera vittoria strategica. Invece, una volta conquistata Mosca, Napoleone non seppe come procedere: si era prossimi all’inverno, gli uomini mancavano di vettovagliamento e lo zar era scappato nell’interno del paese, verso la Siberia. Di conseguenza, l’invasione francese della Russia rappresenta un esempio di storia militare di invasione priva di effetti politici, caratterizzata da episodi squisitamente militari e, perciò, priva di effetti e fine a se stessa. Utilizzando una simpatica metafora, Clausewitz asserisce che senza alcun trattato di pace e nessuna conquista, Bonaparte era come un ladro che entra in casa e non trova i padroni, rompe per sfregio ma non può chiedere i soldi perché non li trova, e dunque è presto costretto ad andarsene via. Tanto più presto, possiamo aggiungere, in quanto i padroni di casa abitavano in terre notevolmente inospitali, da un punto di vista climatico, durante l’inverno. Volendone tracciare un bilancio, la campagna napoleonica di Russia ha dimostrato a) che non si può conquistare un esercito di grandi dimensioni con mezzi ottocenteschi, b) che la vittoria in battaglia e la conquista di città-chiave non comporta necessariamente la pace con il popolo aggredito e c) che temporeggiare può essere benefico in quanto permette ai difensori di trasformarsi, successivamente, in aggressori.
Incendio di Mosca, settembre 1812
La tattica rappresenta dunque la dottrina del movimento delle truppe: in quest’ambito, pertanto, la geometria riveste un ruolo fondamentale. La tattica principale, d’altronde, consiste nell’aggirare il nemico per colpirlo ai fianchi o da tergo. La strategia, invece, determina tre elementi principali: a) dove combattere, b) quando combattere, c) contro chi combattere e utilizzando cosa. 
Che cosa rappresenta, però, la guerra? Essa si può considerare un’arte o piuttosto una scienza? Da dove sorge? E’ un fenomeno partorito dal rigore o dall’impulso? Di certo è che il grembo da cui sortisce il conflitto armato è sempre quello della politica. Tutti conoscono bene, d’altronde, che per Clausewitz la guerra non è altro che la prosecuzione della politica con altri mezzi.
Tra gli elementi che consentono di conseguire una vittoria in guerra non è sempre decisivo quello che assicura la superiorità numerica di uno dei contendenti. E’ vero anzi che concorrono per la vittoria fattori diversi tra i quali il rifornimento ed il vettovagliamento dell’esercito, il rimpiazzo di uomini ed armi, la certezza dei collegamenti e la sicurezza del ripiegamento tattico in caso di necessità. Per quanto attiene le potenze morali di un esercito, esse includono a) il talento del capo, b) la virtù guerriera dell’esercito, c) lo spirito del popolo (quindi la sua motivazione e il suo morale). Un popolo guerresco dovrebbe possedere diverse qualità fra cui il valore, l’adattabilità, la resistenza e l’entusiasmo. Dovrebbe inoltre essere pronto a intraprendere una guerra in diversi ambienti e condizioni naturali: se combatte nelle montagne o nelle fitte foreste, terreni ideali per la guerriglia, si richiedono soldati con alto spirito di fede, convincimento, zelo, agilità, adattabilità, ecc.; la guerra sul terreno aperto, invece, privilegia la professionalità, il coraggio temprato, la rigida disciplina e l’obbedienza assoluta ai propri superiori al fine di eseguire le manovre tattiche con massima precisione e sincronizzazione.
Volendo confrontare due eserciti dell’antichità per comprendere gli elementi costitutivi della vittoria in guerra possiamo ricordare le guerre persiane (490 e 480-479 a.C.) combattute tra greci e persiani. Le motivazioni per cui i greci hanno sconfitto i persiani in queste campagne sono varie. Prima di tutto i persiani rappresentavano un esercito eterogeneo di schiavi dalle origini ed etnie diverse e ciò chiaramente andava a scapito della motivazione e del morale. L’esercito persiano fondava la sua forza non sulla qualità ma sulla quantità, e inoltre gli attacchi che portava avanti erano per lo più privi di fantasia tattica, reggendosi meramente sul principio di superiorità numerica. Mancava poi qualunque tipo di ideale da difendere, i quanto non esisteva presso questi schiavi né il senso patrio né il senso della famiglia. Infine, le truppe persiane, eccezion fatta per gli Immortali, erano scarsamente addestrate e la policroma origine impediva perfino la comunicazione tra esse. Al contrario, i greci possedevano tutto ciò che ai persiani mancava: senso della patria, organizzazione e disciplina, motivazione procurata dal desiderio di difesa del territorio e delle famiglie, addestramento minuzioso e assenza di coercizione a combattere (era un esercito che combatteva per libera scelta, non per comando superiore).
Battaglia di Platea, 479 a.C.
In strategia, non importa la superiorità numerica avversaria, o almeno sicuramente non è decisiva: ciò che importa davvero, invece, è convergere al momento opportuno il maggior numero di soldati al combattimento nel punto decisivo o focale. Se poi consideriamo le operazioni di guerriglia montane o boschive allora la superiorità numerica davvero non conta nulla. Nelle battaglie campali, invece, essa può contribuire alla vittoria, ma non è sempre così e spesso addirittura è un intralcio alla vittoria stessa. Lo spazio-tempo è l’elemento centrale della strategia; in esso rientrano:

- La corretta valutazione degli eserciti avversari.
- Il ruolo delle truppe di avanguardie in esplorazione e pattugliamento per individuare l’avversario.
- Le marce forzate.
- La temerarietà di attacchi fulminei.
- Le manovre di accerchiamento e di aggiramento dei fianchi nemici in modo che il numero dei soldati avversari assuma un significato relativo per l’esito dello scontro.    

L’effetto sorpresa è fondamentale in guerra. Senza sorpresa non vi può essere superiorità nel punto decisivo; inoltre, è la sorpresa a portare allo scompiglio dei ranghi avversari dovuto a confusione, panico e timore. La sorpresa necessita di direttive precise, di segretezza, di rapidità, di coordinamento, di mimesi.
Ai tempi di Clausewitz le caratteristiche di una battaglia tra contendenti di forza simile erano molto comuni fra loro. Esse prevedevano delle tappe quasi fisse, che si succedevano a ritmo cadenzato:

- Sistemazione delle truppe in grandi masse ai lati e dietro il campo di battaglia.
- Dispiegamento di una parte delle truppe in una formazione che sia scelta in funzione della formazione adottata dall’avversario (ad esempio in colonna, in linea o in quadrato a seconda di come il nemico ha schierato le truppe e quali tipologie di truppe ha deciso di impiegare).
- Scontro in combattimento a fuoco, dapprima tra batterie d’artiglieria e poi tra fucilerie, che poteva durare diverse ore (soprattutto il fuoco di batteria e controbatteria).
- Eventuali e mutevoli assalti alla baionetta o incursioni di cavalleria durante lo scontro a fuoco.
- Ricambio delle vecchie truppe con truppe più fresche in ogni reggimento esposto direttamente al combattimento.
- Cessazione momentanea delle ostilità dopo avere concordato un termine (una tregua).
- Bilancio approssimativo delle perdite proprie ed avversarie e valutazione del guadagno o meno di spazio e di quanta sicurezza si conserva alle proprie spalle rispetto alle linee di comunicazione.
- Ipotetico mutamento del piano di guerra dovuto alle incombenze.
- Decisione se abbandonare il campo di battaglia ripiegando in ordine, se rinnovare il combattimento, o se proclamarsi vincitori (quest’ultimo evento concepibile solo se il nemico accetta di dichiararsi ufficialmente sconfitto).   

Per decidere se un combattimento è decisivo gioca un ruolo fondamentale il fatto se il nemico è in grado di disperdersi, (dunque di ripiegare) e di unirsi ad altre truppe collocate in altri territori. L’esercito che, sebbene dimezzato, riesce a congiungersi ad un altro esercito non rappresenta un esercito sconfitto, ma solo un esercito indebolito. Inoltre, la vittoria si ottiene sempre se un esercito non è più in grado di imbracciare le armi o perché annientato materialmente con la violenza o perché i soldati che lo compongono sono divenuti prigionieri dei vincitori. Gli attacchi sui fianchi o da tergo influiscono più favorevolmente sul risultato successivo alla decisione di sferrarli che non sulla decisione stessa: ad esempio, un contingente di rinforzo che viene inviato alle spalle dell’avversario risulterà in condizione di relativa debolezza in quanto lontano dal resto del suo esercito, isolato e a sua volta a rischio di aggiramento.
Un bravo comandante dovrebbe capire quando far proseguire o cessare uno scontro tenendo in considerazione i cosiddetti indici di andamento della battaglia, tra i quali:

- Numero di batterie operative rimaste rispetto al nemico.
- Situazione dei soldati e coesione del reggimento dopo le cariche di cavalleria nemica.
- Penetrabilità o compattezza dei battaglioni di fanteria propri e nemici.
- Arretramento o avanzamento tattico della linea di fuoco.
- Perdita o conquista di posizioni chiave nel campo di battaglia (case, villaggi, fiumi, ponti, ecc.).
- Assottigliamento eccessivo dei battaglioni in prima linea (feriti, fuggiaschi, disertori, perdite).
- Quantità di reparti tagliati fuori o fatti prigionieri.  
- Valutazione della pericolosità che un ripiegamento ordinato si trasformi in rotta caotica soggetta ad inseguimento da parte del nemico.
- Salvaguardia delle vie di fuga dalle manovre a tenaglia o dalle sopraggiunte riserve del nemico.

Nel caso in cui il comandante percepisca che la sconfitta del suo esercito è prossima il suo principale obbligo sarebbe quello di evitare a tutti i costi la disfatta. In questo caso, infatti, occorre che l’esercito ripieghi ordinatamente, lasciando dietro di sé le truppe in prima linea e sfruttando i reparti di cavalleria leggera per coprire la ritirata e per rispondere alle cariche nemiche con contro-cariche. Quando un generale non vuole una scaramuccia o un combattimento minore, ma una battaglia decisiva lo si potrà comprendere dal numero di truppe impiegate: la concentrazione di tutte le forze di cui dispone per un’unica battaglia è indice della ricerca di una battaglia risolutiva del conflitto. Per quanto riguarda poi il vincitore, il suo compito principale è quello di inseguire il nemico battuto, quindi marciare sulle sue capitali o città-chiave, ovvero conquistare subito il territorio conteso. La cosa più importante, comunque, è che il vincitore scenda a patti con lo sconfitto per dettare le condizioni di armistizio e quindi di pace.
Formazioni di fanteria
Per quanto riguarda alcune definizioni strategiche, un teatro di guerra è un settore territoriale in cui ha luogo un conflitto e può essere circoscritto da vari tipi di confini: confini naturali, come fiumi, montagne o foreste; confini umani come fortificazioni, cittadelle, avamposti; confini spaziali convenzionali dati dall’estensione delle operazioni belliche. Per armata, invece, si intende una massa combattente che si trova in un determinato teatro di guerra (pensiamo alle napoleoniche Armata d’Italia, Armata del Reno, ecc.). Più masse di una stessa armata nel medesimo teatro di guerra sono detti corpi, o, per essere più precisi, corpi d’armata. Inoltre, una campagna include una sequenza di eventi strategici in un periodo di tempo, in un preciso teatro di guerra (pensiamo alla campagna d’Egitto). Anticamente le campagne militari erano annuali, nel senso che ogni primavera ricominciava una campagna militare per poi interrompersi al sopraggiungere dell’inverno, con il ritiro dei soldati negli acquartieramenti invernali. Per quanto riguarda le diverse armi, la cavalleria agisce tramite la mischia individuale (ossia urto, corpo a corpo, inseguimento), l’artiglieria agisce tramite l’annientamento da fuoco (ossia bombardamento, indebolimento ed assottigliamento dei ranghi nemici, riduzione della velocità d’avanzata avversaria, conversione coercitiva per cannoneggiamento dei reparti avversari, fuoco di controbatteria), la fanteria agisce secondo entrambi (fuoco iniziale, assalto alla baionetta, corpo a corpo, inseguimento/ripiegamento). Il corpo a corpo, o combattimento individuale diretto, prevede che l’attaccante si muova e he il difensore mantenga la posizione stando fermo sul terreno. A differenza della fanteria, la cavalleria non può essere impiegata per mantenere una posizione difensiva ma soltanto per attaccare. Mentre infatti la fanteria, che è la più completa delle armi, può essere impiegata per il fuoco, per la difesa nel corpo a corpo e per l’attacco nel corpo a corpo, la cavalleria, da un lato, può essere utilizzata solo per l’attacco nel corpo a corpo, e l’artiglieria, dall’altro, solo per il fuoco, ossia per l’annientamento da fuoco. Tutte le tre armi svolgono un ruolo fondamentale in battaglia, ed è dalla loro interazione che emerge un esercito completo e potenzialmente irresistibile. Tuttavia, se un esercito facesse a meno della cavalleria (che ne incarna il movimento) perderebbe di meno che facendo a meno dell’artiglieria (che rappresenta l’annientamento, l’attacco a distanza e la potenza distruttrice). D’altro canto, un esercito di sola fanteria ed artiglieria sarebbe penalizzato nel ripiegamento, inseguimento, esplorazioni, incursioni ed accerchiamento. Un massiccio esercito di soli fantaccini potrebbe avere un valore significativo nel caso di scontro con un altro esercito di fanti, ma sarebbe profondamente vulnerabile ai bombardamenti d’artiglieria (e ciò è vero quanto più l’esercito di fanti è compatto e fitto) e molto più lento dei reparti di cavalleria nemica.                        


Riferimenti bibliografici:



C. von Clausewitz, Della Guerra.

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